Il passo (non) breve del Napoli che verrà

Dalle contestazioni al presidente e al tecnico al trionfo per lo scudetto

il passo non breve del napoli che verra
Napoli.  

Tutto era cominciato un po' per caso o almeno così era sembrato. Dirò di più. Il ritiro precampionato della stagione calcistica 2022-2023 della SSC Napoli era, nella migliore delle ipotesi, iniziato in sordina. Di certo senza alcun tripudio di cori e bandiere. Anzi. Si può dire senza tema di smentite che il tifo partenopeo, organizzato o meno, aveva snobbato unito tutti i nuovi acquisti, dando a ciascuno e per differenti ragioni il suo sdegnato niet. Altra cosa erano stati gli striscioni offensivi contro il presidente e i dirigenti, tutti colpevoli, a dire dei depositari (subito dopo i giornalisti) del verbo calcistico unico e incontestabile, di voler "giocare al ribasso", per costruire - diciamo così - un "Napoli da mezza classifica".

Altra ancora quelli contro Luciano Spalletti e il suo staff tecnico, rei di aver aggiunto al danno del mancato scudetto dell'anno precedente - chissà poi perché avrebbe dovuto essere un "obbligo" dopo due (onerosissimi) anni senza la benchè minima traccia di Champions - la beffa dell'avallo a calciatori tecnicamente modesti e caratterialmente inadatti all'ambiente infuocato azzurro.

La parola più carina al loro indirizzo che girava tra social e patiti del Napoli era "aziendalisti", senza che molti di loro sapessero neanche cosa significasse. Non che la "espertissima" e altrettanto intoccabile stampa specializzata nazionale fosse stata molto più tenera dei "nemici in casa", tanto da relegare la società campana tra il settimo e il nono posto nelle famose griglie precampionato e anche con una paccata - perdonate il giovanilismo, ma rende meglio lo stato delle cose che fu - di punti di distacco dalle irraggiungibili corazzate del nord, che fossero strisciate a lutto col rosso, col bianco o col blu.

Avanti a noi - sempre a detta della stampa di ogni ordine e grado - veleggiavano senza tema pure gli strisciati bis dell'Atalanta come le tre sorelline del centro Italia, Roma, Lazio e Fiorentina. Insomma, le sfere di cristallo di quegli incerti giorni avevano sancito che ce la saremmo giocata con Udinese, Bologna e Torino per il raggiungimento quanto prima di un posto sicuro tra inferno e paradiso, quello dei fatidici (e salvifici) 40 punti. E non era ancora tutto. Si preconizzavano già fallimenti finanziari e tecnici, sulla scia delle precedenti e non lontane esperienze.

Era - sempre a compiaciuta detta della carta stampata - la fine! E il bello è che lo avevano anche fatto credere ad ampie fasce del popolo azzurro. Che pertanto mormorava, oh si se mormorava. L'unico che era sembrato veramente - e aggiungo sinceramente - aver fede, anche a dispetto dello stesso allenatore, era stato proprio Aurelio De Laurentiis, il presidente "romano", quello che "non voleva vincere", quello che, strano a dirsi, non aveva mai prima di allora pronunciato la parola scudetto in maniera così diretta e sfacciata come in quei giorni di luglio del 2022.

Tutti a far battutine e a suggerire al patron visite specialistiche urgenti, che mettessero un freno agli evidenti problemi di declino cognitivo, ovvero alle autorità costituite interdizioni dai pubblici uffici per spavalderia, qualora non fosse vera e propria cialtroneria. Così tra disinteresse e contestazioni era finalmente cominciata la stagione più bella, più impensabile e, di gran lunga, più sorprendente della società di calcio di Napoli in tutti i suoi quasi 100 anni di storia. Per gli altri due scudetti - siamo lontani dall'ultimo ormai 33 anni - era stato, invece, tutto diverso.

Benché l'oggi ultranovantenne Corrado Ferlaino non abbia sempre vissuto giorni felici alla guida più che trentennale della società partenopea, almeno l'incipit di quel tempo che portò poi a scudetti e coppe fu felice, dai novantamila dell'allora San Paolo alla presentazione del dio del calcio, Diego Armando Maradona, agli acquisti, via via crescenti per forza e personalità, che resero quella squadra bella e vincente. Ma quel presidente e quella rosa poterono contare anche sul peso politico nel mondo del calcio di Italo Allodi, come su quello extracalcistico di figure politiche di grande rilievo nazionale e sovranazionale. Il Napoli di Aurelio De Laurentiis no.

Anzi si può tranquillamente affermare che in Italia e in Europa è più inviso che amato da chi muove, più o meno legalmente, le pedine sullo scacchiere del potere (ancora) politico ed economico. Questo era lo stato delle cose quando la favola che qui sto celebrando ha avuto inizio. Va aggiunto, a onor del vero, a ulteriore scusante dei detrattori di allora come a ennesimo trionfalismo per le imprese che sarebbero seguite - e di nuovo a differenza di quello che accade negli anni '80 - che la compagine che ha incantato (e incartato) l'Italia in questa stagione che mi auguro ripetibile è stata costruita sulle ceneri di un'altra formazione che aveva perso, a detta di tutti, ma proprio tutti, e in un sol colpo, i suoi uomini più forti e rappresentativi, quelli che venivano direttamente dallo scouting e dalla lungimiranza di Rafael Benitez e che tanto bene avevano fatto per quel Napoli forte, in taluni momenti anche fortissimo, ma non abbastanza da stracciare senza se e senza ma le competizioni a tappe a cui aveva partecipato (vedere l'esclusione dai quarti di Champions di quest'anno per credere).

Quei calciatori, quegli uomini, pur straordinari, anche se non vincenti per la storia che gonfia almanacchi e bacheche, rispondevano ai nomi di David Ospina, Kalidou Koulibaly, Dries "Ciro" Mertens, Fabian Ruiz e (soprattutto) Lorenzo Insigne. Senza contare la perdita "morale", che un suo peso pure ha, di Faouzi Ghoulam. Lo ricordo bene il gioco dell'arrampicarsi sugli specchi un po' di tutti quelli della SSC Napoli che in quei "bollenti" giorni estivi parlavano con i giornalisti.

Era tutto un "vedremo", "aspettiamo una risposta", "vedrete accetterà la nostra proposta", salvo poi ammettere di "nuovi stimoli", "altre destinazioni". E in cambio chi arrivava? Nomi sconosciuti o giù di lì. Di Kvicha Kvaratskhelia, un 21enne georgiano di buona tecnica e belle speranze chiamato all'ingrato compito di far dimenticare il capitano frattese, già si sapeva da un po', ed eccetto qualche brillante giocata su video d'antan (praticamente delle medie), recuperati dal mercato clandestino dei paesi dell'est, poco o nulla ci era dato conoscere. Il vero dubbio nasceva - sempre a detta di chi sa sempre tutto - sulla sua capacità di "adattarsi" a un campionato considerato "troppo superiore" alle sue (modeste) qualità, manco si trattasse di quello inglese e non fossimo rimpinzati di raggiri e plusvalenze. Quell'aria dinocollata poi, quel suo intestardirsi con i dribbling, quel credere di poter sfidare le migliori difese del mondo solo con finte e controfinte, manco fosse George Best. Già, George Best, il primo a paragonarlo alla stella gallese sono stato io - ho prove e testimoni - proprio su queste pagine, e ora godo di una pletora di tronfi seguaci che neanche Donald Trump. Risultato, un effetto devastante su campionato e Champions e un valore aggiunto anche nei giorni meno felici. Perchè non conta sempre e solo la tecnica, avere un apprendista dalle doti straordinarie, anche morali, migliora Merlino e la sua magia (come sapeva bene il Re Artù di Walt Disney).

La cosa che sconcerta (e imbufalisce) poi ancora di più tutti è il fatto che Giuntoli e De Laurentiis siano stati capaci di prenderlo a 10 milioni di euro (se non sono 9) quando solo pochi mesi prima costava tre volte tanto. Un discorso molto simile vale per Kim Min-jae, il 26enne lungagnone coreano venuto dall'Oriente asiatico (anche cinese), passato dalle stesse coordinate geografiche europee e approdato quasi di stramacchio e in tutta fretta in Italia, dopo esserselo conteso all'ultimo sangue e in piena zona Cesarini con un club minore francese.

A dispetto del "nostro" Francesco Marolda che gli attribuisce la colpa di almeno la metà dei gol presi dal Napoli in tutte le competizioni, partitelle in famiglia incluse, è stato una sorpresa assoluta per tenuta atletica, capacità di leggere le situazioni tattiche, anche le più critiche (più del Koulibaly dopo 5 anni di permanenza napoletana), bassa se non inesistente percentuale di errori,  simpatia, amichevolezza e purezza d'animo, che lo hanno fatto amare da tutti, dentro lo spogliatoio, allo stadio, per strada e in ogni angolo in cui si respirasse un briciolo di passione azzurra.

Stupefacente! Neanche nelle più belle favole si sarebbe potuto immaginare che accadesse. Sono loro per me i primi artefici, badate bene non della vittoria, ma del cambiamento, che quella vittoria ha reso possibile. E i cambiamenti, si sa, necessitano di tempo, a meno che non giunga un evento improvviso e travolgente, una tempesta benefica e perfetta a scompaginare le carte accumulate e un po' ammuffite sul tavolo. Sono stati loro due - lo ribadisco - le chiavi di volta della trasformazione del Napoli, da quello perdente che era a quello vincente che è ora e che spero sarà a lungo. Sì perché, al di là di chi andrà e di chi verrà, conterà lo spirito finalmente trovato, l'alchimia raggiunta, per capire che, una volta istituita la Tavola Rotonda, chiunque la presieda, la guidi o ne faccia parte avrà con sé il vincolo irripetibile che l'ha fondata, l'insoddisfabile sete di bel gioco, sportività e amicizia che l'ha resa "indelebile".