Giovedì 19 settembre - giorno in cui si festeggiava il santo patrono di Napoli e si attendeva trepidanti lo scioglimento del suo sangue - il Mercadante ha ospitato un evento che celebrava l'ex capitale del Regno delle Due Sicilie attraverso le sue canzoni. Canzoni famose, quasi tutte, ma non tutte. Promotore, ideatore e narratore di quell'avvenimento non poteva che essere un napoletano, ma non uno qualsiasi, bensì Maurizio De Giovanni, scrittore, drammaturgo, sceneggiatore e - più recentemente - autore e presentatore di programmi televisivi, pantagruelico custode di storie d'amore sulla sua città e uno degli ultimi esecutori testamentari della sua unica, straordinaria e irripetibile identità.
Ma Maurizio De Giovanni non è solo un cronista, per quanto raffinato e attento, della spiritualità partenopea, ne è anche una delle testimonianze più elevate, palpitanti e dirette, calata com'è in un quotidiano senza confini né tempo fino ad assurgere a simbolo della sua riconosciuta universalità. Ne volete una prova? Andate al suo spettacolo se riuscite a ritrovarlo da qualche parte del mondo.
Fate attenzione, però, la sua pregevolezza non è solo nella straordinaria qualità del quartetto che materialmente esegue le canzoni (dove su tutti spicca un Marco Zurzolo al sassofono, ispirato come non lo si sentiva da tempo), bensì nel lieve e accorato incedere dei commenti, delle postille, delle premesse, perfino degli impacci e dei silenzi dello scrittore napoletano. La serata è corsa via senza interruzioni, pause e intoppi, come se una galleria di ricordi macinasse chilometri in un cuore planetario. Non essendo, tuttavia, questo mio pezzo una recensione, lo consegno ai posteri come una riflessione. Si una riflessione su Napoli e sui napoletani. Il nutrito manipolo di spettatori presenti al teatro di piazza Municipio me l'ha indotta.
Le parole di Maurizio - l'antico amico non si dimentica mai - hanno fatto altrettanto. A Napoli c'è un fil rouge che tiene insieme tutto. Da sempre. A dispetto del tempo, della sopraffazione, del grottesco e dell'incuria. È sublime per definizione. Tiene avvinti - come nelle "affinità elettive" di Goethe da cui la storia del filo rosso trae origine - il ricco e il povero, il padrone e il servo, il libero e lo schiavo, l'ignorante e il colto. Nessuno può spezzarlo quel filo. È un obbligo, un destino, ma anche la semplificazione di un groviglio. Perciò, non c'è chi possa ignorarlo, come non c'è chi possa veramente affrancarsene. Nessuno può perfino del tutto deviarlo dalla sua meta (che sembra fatalisticamente gli sia connaturata). Se foste stati seduti con me tra quella platea di donne e uomini assorti ve ne sareste resi conto. Un unico respiro, un unico afflato ci ha tenuti incollati alla cronografia degli eventi tanto magistralmente allineati da mani sapienti, manco ne fossimo noi stessi gli ideatori, gli esecutori materiali, i protagonisti.
Maurizio De Giovanni era il Gran Sacerdote della napoletanità e noi spettatori i suoi incantati e, in alcuni momenti, anche attoniti, fedeli. Rapiti da quell'aria impregnata di umanità, e di "miseria e nobiltà" - la stessa che con tanta maestria era stata raccontata da Edoardo Scarpetta 136 anni fa - risultavamo l'emblema di un mondo che provava a rimanere fedele a sé stesso per non cedere oltre il passo all'arroganza, all'ignoranza e al sopruso. Un'isola felice in mezzo alla barbarie. O almeno questo meritavamo di essere. Quelli eravamo quando siamo entrati al Mercadante e quelli (e ancor di piu) siamo stati quando ne siamo usciti. La storia canora - da "Indifferentemente" di Umberto Martucci a "Tutt 'e ssere" di Pisano e Cioffi - percorsa dallo spettacolo alla fine è stata solo un pretesto per riunirci, ritrovarci, forse perfino contarci. Dico di più.
Per mostrare al mondo chi siamo e chi per sempre resteremo. Alla faccia dello straniero - nato a Torino o a due passi da Napoli - che, certo non inconsapevolmente, ha provato a sottometterci a una grottesca italianità e a provare a fare di ciò perfino una storia duratura. Ma come ha dimostrato Maurizio De Giovanni nel suo meraviglioso spettacolo di leggerezza, libertà e introspezione, che qui un po' confusamente ho provato a raccontarvi, a Napoli "nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma". È così che l'attesa declinante di Vincenzino Russo per Enrichetta diventa l'amore perduto e vano di Rocco Galdieri per la moglie fedifraga e il "silenzio cantatore" di Libero Bovio si trasforma senza apparente soluzione di continuità nella pervicace e malinconica fiammella notturna - 'a palomma - di Salvatore Di Giacomo. Un invisibile filo rosso ci unisce tutti, lo ripeto. Ora qualcuno lo ricordi.