Nella Lega di oggi, un partito che si definisce “nazionale” ma che porta un Nord smarrito nel cuore, la tensione si taglia col coltello. L’ultimo scontro, come in un dramma teatrale, vede protagonisti Matteo Salvini e Luca Zaia. Il palcoscenico? Il Consiglio federale del Carroccio, dove si discuteva delle sconfitte elettorali e del futuro del partito. Il tema che ha fatto esplodere il duello è stato la cosiddetta “questione settentrionale”. Zaia, mai incline a tenere un basso profilo, ha riportato al centro il Nord come colonna portante della Lega, quella Lega nata con l’obiettivo di difendere i territori e non certo di inseguire i venti di un sovranismo nazionale.
Un Nord dimenticato?
Zaia non ha usato mezze misure: «Il Nord si sente dimenticato, e senza il Nord la Lega non sarebbe quella che è oggi». Parole che hanno bruciato come sale su una ferita. Salvini, intento a passare al setaccio i cattivi risultati elettorali – compresi quelli in Veneto – non ha gradito la critica. Eppure, il governatore veneto non ha fatto altro che ribadire ciò che molti leghisti della prima ora pensano ma faticano a dire: la Lega non è più il partito che aveva nel cuore il Nord. Oggi il partito insegue temi che poco parlano al lombardo o al veneto medio: sovranismo, immigrazione, lotta ai "nemici di Stato".
E il Nord? Accantonato, annacquato, perso. Non è un caso che lo stesso Zaia, già in passato, avesse espresso una certa nostalgia per la “Lega Nord” di Bossi, quella che, pur nei suoi limiti, aveva un’identità chiara e territoriale.
Il casus belli
Il vero punto di rottura è arrivato quando Salvini ha puntato il dito contro il Veneto, accusandolo di risultati elettorali insoddisfacenti alle Politiche 2022 e di essere la causa dell’impossibilità di ottenere un terzo mandato per i governatori. Zaia non ha lasciato passare l’affronto, ribattendo che il calo dei consensi è una diretta conseguenza di un partito che ha perso la connessione con i territori. «La rappresentanza del Nord non è un’opzione, è il fondamento della Lega», avrebbe detto. Salvini, dal canto suo, ha risposto al fuoco: il problema non è la linea nazionale, ma un calo di spinta regionale. Lo scontro, a quel punto, era inevitabile.
Un partito, due visioni
La Lega appare sempre più divisa tra due anime, quasi evangeliche nei loro predicatori. Da un lato, il “Vangelo secondo Matteo”, che si concentra sul sovranismo, l’identità nazionale, e le battaglie di destra estrema. Dall’altro, il “Vangelo secondo Luca”, che guarda alle radici territoriali, all’autonomia, e a un pragmatismo riformista che cozza con il tono da campagna elettorale permanente.
La divisione non è nuova. Già durante la pandemia, Zaia e Salvini si erano scontrati su mascherine e vaccini, mostrando approcci diametralmente opposti. E poi, la questione delle candidature: Salvini avrebbe voluto Zaia come capolista alle Europee, un traino per il partito in crisi, ma il governatore ha detto no, segnando un ulteriore punto di rottura.
Il rischio dell’arrembaggio
Dietro a tutto questo, però, si nasconde una paura comune: l’arrembaggio di Fratelli d’Italia. Il partito di Giorgia Meloni sta erodendo consensi alla Lega anche nei suoi feudi storici, come il Veneto. La possibilità che la presidenza della Regione passi di mano dopo quindici anni di dominio leghista non è più un’ipotesi remota. Zaia, con il suo consenso personale, è ancora una figura forte, ma senza un terzo mandato all’orizzonte, la strada per la Lega potrebbe farsi in salita.
Un futuro incerto
La disputa tra Salvini e Zaia non è solo una questione personale, ma simbolica: rappresenta il dilemma esistenziale della Lega. Continuare a inseguire i sogni di un partito nazionale o tornare alle origini e riconnettersi con le radici del Nord? Una scelta deve essere fatta, e presto. Perché nel frattempo, il vento del Nord rischia di spegnersi, lasciando il Carroccio alla deriva.