Di Ciccio Capozzi
Per gli appassionati o semplicemente abituali spettatori di cinema e teatro, è dura. Costretti a vedere impotenti chiudere sale cinematografiche e teatri per il Covid 19, dal marzo 20, ci siamo rintanati a casa, obbligati a “piatire” e a farsi bastare il cinema in tv. Ovviamente è ancor di più drammatico per le tante persone che vi lavoravano (173m secondo gli ultimi dati) e che sono rimaste a casa, solo in minima parte “ristorate”. E’ stato solo un fuocherello di paglia l’apertura tra agosto, settembre e prima quindicina di ottobre 20 (prima della seconda fase della pandemia): anzi, ha peggiorato le cose, perché i coraggiosi che hanno osato, hanno dovuto contrarre ulteriori debiti con le banche.
E qui inizia il “bello”...
Pur di non starci alle sole offerte dei Rai, anche di RaiPlay, ci siamo abbonati a (quasi) “tutte” le Piattaforme di streaming: siano esse state pay o on demand. Ecco che siamo entrati in Chili, che fa pagare le visioni; Netflix, Amazon Prime, Now tv (che è la versione solo on demand di Sky), ecc. che invece sono in abbonamento mensile. E stiamo sopravvivendo. Magari insieme a parenti e amici coi quali condividere gli account messi a disposizione dalle piattaforme (e, last but not least…., le spese). E mi sono reso di una cosa: che il cinema, che non ho visto, è proprio tanto.
E lo dice uno che al cinema prima andava tra le tre e le quattro volte a settimana, da solo o in compagnia, tutte le settimane dell’anno, esclusa quella di Ferragosto. Voglio dire: in Italia, nonostante la crisi dell’esercizio , ovvero con molte sale chiuse, uscivano circa 300 film all’anno: andando al cinema, ne vedevo circa 200: era ed è umanamente impossibile vederli tutti. Tuttavia, il mio amico Antonio Borrone, dotto quanto appassionato e acuto, ha curato un Dizionario del cinema napoletano che comprende tutto -oh: ma proprio tutto..- il cinema fatto da registi napoletani: e debbo riconoscere, con tutta umiltà, che ve ne sono alcuni mai sentiti nominare. Poi a Napoli, venivano solo una parte dei film d’essai in uscita, a volte in forma di meteora, per avere i contributi statali, a Roma (soprattutto) e Milano. Però vi sono le riviste specializzate che informavano sull’andamento della produzione: alcune, come “Ciak”, rivolte a pubblici più vasti (ma sempre con informazione puntuale e attenta); altre come “Vivilcinema” specializzata nell’essai, anzi è l’organo della Federazione dei cinema d’essai (FICE). Senza contare quelle storiche, tipo “Cineforum”, che oggi, di fatto, sono per lo più legate alle cattedre universitarie di cinema.
E questo è solo il cinema main-stream, quello che bene o male, con fatica, perviene a circolare (circuita) nelle sale, sperando di avere dei pubblici a vederlo…. Ma ce n’è un altro che “vive” essenzialmente, se non quasi esclusivamente, in rassegne specializzate, festival di media importanza, piccoli, a volte minimi, ma attivi e presenti in tutt’Italia, con pubblici e operatori entusiasti e dedicati, e molti anche in Campania: qui raccolti nel Coordinamento dei Festival di Cinema Campani (CFCC). Uno dei quali è il Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, di cui lo scrivente è parte. E’ il Cinema di Realtà: ovvero i film Documentari, legati a problematiche per lo più sociali, come quelle dei Diritti Umani, l’ambiente, ecc.
Insomma, il cinema è un livello espressivo-comunicativo di tremenda complessità. Ma anche di infinita duttilità. Come la cattività pandemiese ci ha definitivamente provato.
Le grandi Piattaforme on line, hanno reinventato in tv il cinema Seriale. Esso già esisteva agli albori del cinema muto e sonoro; e, sotto forma di telefilm, fin dalle origini della tv: chi non ricorda Perry Mason, Rin tin tin, Ivanohe ecc.? Ma anche oltre: con serie di buona qualità, anche dal punto di vista dello stile, come Law & Order. E’ stato magnificamente ripreso da queste piattaforme. Game of Throne (Trono di Spade) , targato HBO (Home Box Office), che era una tv satellitare Usa e via cavo, di proprietà di Warner Media, ha indicato come una prateria di nuovi consumatori di questa nuova forma di cinema in tv, era sterminata e vergine. HBO è diventata una grande produttrice di contents (contenuti), per questa nuova forma di comunicazione tv, che ha calamitato l’attenzione e il gusto di miliardi di spettatori: e l’ha trasformato. E su questo business si è lanciata Netflix, che nacque come affittatrice di cassette e dvd (come Blockbuster), oggi presente in streaming in tutto il pianeta. Poi Amazon Prime, Disney, Rakuten ecc.
E la cosa singolare è che queste piattaforme propongono film e serie da tutto il mondo. Netflix presenta film polizieschi e drammatici spagnoli, ad esempio, di qualità tecnica e spettacolare elevata: che non conoscevo, ma che hanno catturato la mia attenzione. E la Tv Series “La Casa di carta”, spagnola di Netflix, non è stato un successo planetario? Ma il cinema “medio” spagnolo, tranne Almodovar e alcuni registi di buoni horror, chi lo conosceva? Ho visto film polacchi. Senza parlare delle Serie tv scandinave: “Quicksand”, miniserie tv (che si risolve in un numero di puntate senza seguiti ulteriori) svedese, che punta all’approfondimento di psicologie adolescenziali. O la finlandese (oh: finlandese! E chi li conosce tranne Kaurismaki?) “Bordertown”, che connette forme di lettura psicologica e umana a problemi sociali, nell’ambito di riusciti plot gialli; e altre islandesi (yes: dalla lontana Islanda, 300m abitanti e una tv che fa belle serie). E molte altre ancora: anche italiane, come “Romulus” di Matteo Rovere, che approfondisce in modi originali espressivi, le tematiche e lo stile di “Il primo re”. Ho visto Serie cubane come “Habana Noir”, tratta dai bellissimi, malinconici e introspettivi romanzi polizieschi di Leonardo Padura. Questo è cinema.
In forme nuove, in cui l’aspetto narrativo, sorretto da sceneggiatori professionalmente validi e ispirati, trova forme linguistiche adeguate alla dimensione seriale, che diventa di approfondimento sia delle situazioni che delle psicologie. E mette in luce attori, registi, professionalità tecnico-artistiche, magari non noti, ma di talento e di qualità: attori e professionisti che peraltro vediamo, sull’onda di quella riuscita tv, rimpallare con successo in ogni dove. Ho visto film raffinati, e sconosciuti ai mercati occidentali della Bollywood indiana; oppure eleganti horror storici e metafisici come “The witch”. Voglio dire: me li godo e ci rifletto.
Ma poi?
Alla riapertura delle sale che succederà?
Su queste domande ha esposto delle riflessioni-sollecitazioni, su Repubblica /Napoli, del 29-3 u.s., in ragionamenti piuttosto articolati e intelligenti, Luciano Stella, figura napoletana di spicco: producer (sua è la Mad Entertainment, studio incubatore a Napoli di pregevoli Cartoni e film), esercente (è suo il Modernissimo) e cinefilo colto e aperto. Egli parte dalla considerazione, storicamente giusta, che nello spettacolo e nel cinema le fasi di progresso non hanno “distrutto” le modalità precedenti di fruizione: dal teatro al cinema; dalla radio alla tv, ecc., esse, dopo un periodo di assestamento, hanno trovato forme di coabitazione. Anzi il cinema ha tratto arricchimenti dalle trasformazioni complessive delle forme della comunicazione culturale. Afferma, non demonizzando la fruizione streaming, ma anzi accogliendola come un competitor che potrebbe perfino tornare utile, di fronte a questa così prolungata chiusura, che si dovranno trovare nuove forme di sollecitazioni verso i pubblici: non “nostalgia di vecchio” ma proposte che coniughino “cinema con arte contemporanea e convivialità (…). Capaci ancor più di offrire esperienze collettive ed immersive di fruizione”. Perché il problema è che i cinema si dovranno “rinnovare”. In pratica, le piattaforme saranno la visione successiva a quella delle sale: questa è imprescindibile al lancio dei film. Ma qui il problema è di regolamentazione, di tipo politico, dell’intero settore. E comunque solo sul “terreno” della fruizione dal vivo, cioè con pubblici presenti fisicamente in sala, ridando vita, benché in forme nuove, a tutta la filiera produttiva dell’esercizio, è possibile realmente misurare la valenza del prodotto, sia sul piano culturale che di quello commerciale.