Il tempo è dalla nostra?

La clessidra non torna indietro ma decidere di andare di corsa dopo anni di immobilismo è inutile

L’unica possibilità è imparare a controllare gli attimi con freddezza

Benevento.  

l tempo perduto non si recupera più. Per quanto lo si voglia ricercare o recuperare, setacciarlo e strattonarlo, c’è poco da girare intorno al dilemma, poco da spiegare o nulla su cui arrovellarsi testardamente. Una volta che la clessidra si è svuotata, il gong è suonato, gli ultimi istanti di partita sono svaniti, non resta che accodarsi e attendere la nuova corsa nella consapevolezza di essere rimasti inesorabilmente attardati, relegati penosamente nelle retrovie del progresso. Se poi delle occasioni sfumate e dei momenti sprecati s’è perso il conto, c’è solo da prendere atto con lucidità delle proprie inadeguatezze, dei propri difetti, dei propri vizi e cercare, se possibile, di limitare i danni di tanta indolenza. L’impresa è ardua, richiede pazienza e nervi saldi, lungimiranza e un pizzico di audacia; vanno evitate improvvise accelerazioni e brusche frenate, sintomo di angoscia e paura. “Il tempo di cui disponiamo ogni giorno è elastico: le passioni che proviamo lo dilatano, quelle che ispirano lo restringono, e l’abitudine lo riempie”. A dar retta a Proust, è questo il male endemico che non si riesce a debellare: l’abitudine intesa come passivo abbandono, incapacità di reagire. Si parte con grandi proclami e mirabolanti ambizioni per poi ritornare ignominiosamente al punto di partenza senza risultati apprezzabili. Si corre per restare fermi, c’è chi lavora sottotraccia per sconfiggere l’assuefazione e chi produce solo rumore sordo. Non si riesce a trovare un punto di equilibrio, quello che consentirebbe al sistema di funzionare. Decidere di andare di corsa dopo settant’anni di sanguinoso immobilismo è estremamente rischioso, il tempo non si fa ingannare, non è trascorso senza aver lasciato un segno indelebile, senza aver scavato un solco profondo tra chi si è dato da fare e chi si è cullato sugli allori, tra chi ha afferrato il futuro e chi è rimasto ancorato al passato, tra chi ha saputo gestire il presente e chi si è lasciato colpevolmente sopraffare pensando maliziosamente di farla franca, di non sopportare le conseguenze della propria negligente inerzia. Se non si è colto l’attimo al momento opportuno, non ci si potrà rammaricare di essere rimasti indietro a rincorrere un traguardo, più o meno ambito, che sfugge e non si lascia più acchiappare fino a tramutarsi in una chimera, in un miraggio che assomiglia a una terribile allucinazione che, come una vertigine, provoca stordimento e disorientamento, nervosismo e frustrazione. Quando ci si accorge del ritardo accumulato, inizia a prevalere la frenesia che si sostituisce alla ponderazione, la fretta fagocita ogni logica e si rischia di andare rovinosamente a sbattere. Banalmente, qualche anno fa, una pubblicità avvisava che la potenza senza il dovuto controllo si sarebbe potuta trasformare in qualcosa di tremendamente pericoloso, generare conseguenze opposte rispetto a quelle desiderate, causare il più classico degli effetti boomerang. Parafrasando quella rèclame, oggi potremmo affermare che la velocità non è arte italiana, è niente senza la capacità di dosare il pedale dell’accelerazione e quello del freno. Produrre leggi o provvedimenti tanto per farlo, tanto per dire di averlo fatto, esibire spocchiosa quantità senza la necessaria qualità diventa stucchevolmente ridonante, un esercizio retorico buono per le telecamere e i microfoni, non certo per impressionare chi decide le sorti magnifiche e progressive delle Nazioni, né per innescare una virtuosa reazione a catena che finalmente premierebbe gli audaci e smaschererebbe i furbastri. Questo falso mito, marinettiano prima e berlusconiano poi, va sfatato una volta per tutte, prima che provochi ulteriori incalcolabili disastri, prima che qualcun altro si lasci folgorare: la rapidità delle decisioni non è sinonimo di efficienza, non garantisce l’inversione di tendenza che consentirebbe di uscire dalla palude in cui s’è impantanato il Paese. Quello che non si vuole riconoscere è che non si tratta di un problema di lentezza, bensì di regolarità della competizione, delle norme elastiche che si allungano o si accorciano a seconda dei contendenti, della fedeltà che diventa merito, dell’autonomia che viene considerata come un disonore. In dieci mesi non si cambia nulla, si dà l’impressione di averlo fatto, si studia un’efficace strategia della comunicazione, si cura scrupolosamente l’immagine e si contrabbanda un altro abbaglio tutto italiano. Dal “salto mortale” futurista al “Ghe pensi mi” dello statista di Arcore fino al “meglio arroganti che disertori” dell’attuale Primo ministro, lo spartito è sempre lo stesso, con toni e accenti diversi ma sempre aggressivi, simbolo di quella deriva verbale che è l’indizio del vuoto ideologico e della paura di non riuscire a portare a termine il lavoro. Si cita Al Pacino per esorcizzare il terrore di non avere più nulla di ammiccante da raccontare fra dodici mesi. “We can” non si adatta bene alla situazione italiana dove il Noi non esiste, è un pronome che esclude molti e include pochi, è una somma di “Io” scelti, selezionati accuratamente per la militanza e non per la competenza. “Noi” sono le cricche, i circoli ristretti, i salotti elitari, quelli in cui ci si è spartiti la ricchezza, spalmando i debiti sugli Altri. Esistono i Noi e gli Altri, quelli al comando e quelli lasciati in mezzo alla tempesta. Tutto rimanga tale e quale perché nulla cambi, è il gattopardismo rovesciato in chiave moderna. L’importante è solo deformare la realtà, utilizzando immagini, suoni e parole immaginifiche, ottundere con la propaganda, confondere con le metafore, stravolgere la sintassi e abolire la grammatica. “Dopo il verso libero, ecco finalmente le parole in libertà!”. Il Nemico è la Lentezza, quella subdola forma di Opposizione al Cambiamento. O la fretta è essa stessa Nemica del Cambiamento, soprattutto quando diventa smania incontrollata? Prima Goethe, poi Tolstoj e oggi un formidabile sportivo come Rafa Benitez, hanno indicato la strada maestra per raggiungere un obiettivo tanto agognato: bisogna agire “senza fretta ma senza tregua”. Allora, la sfida per i prossimi dodici mesi è proprio questa: saper governare il tempo. I capolavori nascono proprio dalla capacità di saper controllare gli attimi con freddezza, dall’abilità nel reprimere l’impazienza e dalla moderazione nel contenere l’entusiasmo. Solo così il tempo sarà davvero dalla nostra parte come cantavano gli Stones. Soltanto in questo modo manterremo il giusto bilanciamento tra negotium e otium, ci resterà un po’ di tempo per goderci la vita e non saremo più costretti a preoccuparci dei deliri verbali dei cattivi maestri. Solo così, forse, potremo farcela anche da soli.

Gianluca Spera