Se la satira non disturba è come un film di Zalone

il dibattito dopo il caso Charlie Hebdo

Benevento.  

Tutta la discussione che si è aperta intorno alle vignette del giornale satirico francese “Charlie Hebdo”, teatro all’inizio dell’anno di un sanguinoso attentato terroristico di matrice jihadista, parte da un equivoco di fondo, un errore di metodo nell’impostazione del ragionamento: la terribile confusione che si crea tra comicità e satira, tra scherzo e scherno. L’una e l’altra, chiaramente, assolvono a funzioni del tutto o parzialmente diverse. La prima tende a enfatizzare gli aspetti umoristici della realtà, in modo più o meno brillante, nel tentativo di suscitare il riso in chi legge, ascolta o guarda. Usa un linguaggio diretto, immediato, popolare che unisce le masse e rassicura i governanti.

 

La satira si muove da un presupposto diverso, il suo scopo principale non è far ridere ma far riflettere, è una forma di resistenza attiva che inevitabilmente risulta sgradita a chi comanda. E’ un modo irriverente di rappresentare i fatti, è un metodo caustico per sbeffeggiare il potere costituito che, implacabilmente, non risparmia nessuno. Infatti, il bersaglio preferito degli autori satirici sono personaggi e argomenti che solitamente sono trattati con un’immancabile punta di buonismo. Perciò, la satira lacera le coscienze e non cattura consenso, se non quello di un pubblico colto e minoritario che, ostinatamente, ne apprezza struttura e registro verbale. E’ la massima espressione del politicamente scorretto, uno sberleffo impertinente che si caratterizza per la serie incessante di colpi bassi che elargisce a destra e a sinistra.

 

Il dolore, la morte, la miseria, la religione, i politici finiscono inesorabilmente nel mirino delle opere sarcastiche che costituiscono, oggi più che mai, un indispensabile presidio democratico. D’altronde, dalla letteratura latina in poi, un certo genere di satira si è sempre contraddistinto per i contenuti aggressivi e il linguaggio esplicito, osceno, sempre ai limiti - spesso oltre – della decenza, del cattivo gusto o, addirittura, in altri casi, della blasfemia. Come osservava argutamente Daniele Luttazzi, la satira informa deformando “e fa quel cazzo che le pare”. In quest’ottica, gli unici limiti che possono essere fissati per una siffatta manifestazione del pensiero sono soltanto quelli che derivano generalmente dalle norme di legge. La libertà di espressione non può travalicare i confini del diritto penale, sfociando, per esempio, nella diffamazione o nell’ingiuria.

 

Ma con altrettanta evidenza, trattandosi di una forma d’arte, e come tale non sottoponibile a restrizioni di sorta, deve potersi manifestare anche quando non incontra il favore generale o suscita ribrezzo ai più. Che, poi, a dirla tutta, il mestiere della satira è proprio quello di provocare scandalo tra i benpensanti, mettere alla berlina il perbenismo, distruggere il conformismo. Se la satira ammorbidisse i toni, se scemasse l’intensità della polemica, se cedesse alle lusinghe degli inflessibili censori, allora finirebbe inevitabilmente per abdicare al suo ruolo. Si trasformerebbe in qualcosa di completamente diverso, in un prodotto di largo consumo, assimilabile al Festival di Sanremo, ai programmi della Littizetto o a un film di Checco Zalone. Naturalmente, questo discorso prettamente teorico non ci riguarda perché, da tempo, in Italia, la satira è stata silenziata, anestetizzata, abolita, sacrificata sull’altare delle convenienze e dell’omologazione culturale che non deve disturbare i potenti o spostare gli equilibri consolidati.

 

Tanti, dopo il vile massacro nella redazione di “Charlie Hebdo”, mossi dalla suggestione collettiva e dall’ansia da social network, si sono affrettati a esprimere il proprio punto di vista, atteggiandosi a strenui difensori della libertà di satira, la stessa che hanno mortificato nel loro Paese, mostrando fastidio verso tutti quelli che deviano rispetto al “comune senso del pudore”, come si sarebbe detto qualche anno fa, in epoche forse meno oscurantiste di questa, più dinamiche e meno ipocrite. “Je suis Charlie” si è rivelata una formula vuota, una moda passeggera che ha contagiato coloro che della rivista, delle vignette non ne avevano mai sentito parlare e non ne avevano neppure una vaga idea. Sarebbe stato più onesto intellettualmente aprire un confronto schietto sullo stato di salute della satira nel nostro Paese, sul reale livello di libertà concesso a chi vuole esprimersi fuori dal coro, a chi intende costruire un contropotere basato su battute sagaci o sarcastici versi. E’ innegabile che l’Italia sia condizionata dal suo ingombrante vicino di casa, il Vaticano.

 

La diffusione della cultura di massa è sottoposta a un rigido controllo, i telegiornali spesso assomigliano a delle messe cantate, la televisione pubblica trasmette una quantità industriale di prodotti a contenuto religioso. A tutto quello che deraglia da questi binari non viene riconosciuto il diritto di cittadinanza, viene relegato in circoli ristretti, diffuso quasi clandestinamente su internet, come se si trattasse di qualcosa di indecente o di illegale. D’altronde su tutta la vicenda, proprio il Papa aveva fatto delle esternazioni piuttosto discutibili. «La libertà di espressione è un diritto, ma anche un dovere. Non si può provocare, non si può prendere in giro la religione di un altro. Non va bene Se il mio amico Gasbarri dice una parolaccia sulla mia mamma, si aspetti un pugno».

 

A voler essere maliziosi, pur forzando un po’ l’interpretazione delle parole di Bergoglio, si poteva leggere in quelle frasi una certa quantità di giustificazionismo che, in qualche modo, potesse ridistribuire torti e ragioni, depotenziando un po’ la sensazione di indicibile orrore che ha prodotto unanimemente la crudele mattanza dei vignettisti parigini. In certe occasioni, è meglio essere chiari e netti: chi usa la violenza, fa scempio di tante vite umane è un barbaro e non c’è provocazione che tenga. Né la satira, per quanto sia sconcia, profanatrice, volgare, può costituire l’alibi per scatenare vigliacche rappresaglie. Anche perché, nei secoli, la satira è sopravvissuta a ogni genere di carneficina. Paradossalmente, la punta di una matita può essere un’arma più incisiva di un kalashnikov, una battuta più esplosiva di una pallottola. E una risata beffarda seppellirà il rumore assordante degli spari.

di Gianluca Spera