Anche i manettari si pentono, verrebbe da dire, parafrasando il titolo di una celebre telenovela sudamericana, leggendo la lettera di Luigi Di Maio al Foglio con le scuse al sindaco di Lodi dopo la sua assoluzione."Mai più gogna come strumento di campagna elettorale" perché "anche io contribuii ad alzare i toni e a esacerbare il clima"., ha scritto il grillino, sul quale pioveranno ora accuse di tradimento di quel 'vaffa' sostituito dal comodo blu ministeriale.
Un passo in avanti che non è però riuscito ad impedire un sorriso sgorgato all'improvviso, scatenato dalla necessità che alle parole seguano i fatti concreti. Non ci vorrà molto, anche perchè le cronache di questo Paese offrono quotidianamente materiale giudiziario. Nell'attesa, il pensiero corre al passato: sembra trascorso un secolo e invece sono circa tre anni dal dramma immane del crollo del ponte di Genova, costato la vita a 43 persone.
Ricordo le frasi ad effetto spese in quella terribile occasione: da una parte servivano ad accelerare la corsa ad incrociare il dolore dei familiari delle vittime e ad identificarsi con loro contro 'i cattivi', dall'altra ad allungare l'onda populistica sfociata nel governo tra Cinque stelle e Lega. Il riferimento al disastro di Genova non è casuale: quella storia, per la quale dovranno ovviamente essere punite le responsabilità accertate, è infatti la sublimazione di un fenomeno che da trent'anni, complici tutti i partiti e nonostante alcuni ravvedimenti operosi, inquina la vita di uno Stato di diritto: la strumentalizzazione politica di ogni indagine.
Un virus micidiale che ha infettato le coscienze, alterandone la percezione, ed ha consentito, a chi l'ha diffuso a piene mani, di creare un clima infame che ha permesso la costruzione di carriere e la conquista di potere. Mica abbiamo dimenticato già le vergognose reazioni cariche di indignazione di fronte alla notizia di un avviso di garanzia, o la richiesta di “buttare le chiavi” in caso di arresti?
Tutto ciò, sia chiaro, è stato possibile grazie ai comportamenti degli organi di informazione che, su tutti i versanti, hanno fatto a gara per essere incasellati in uno o nell'altro schieramento, amplificando ridicole prese di posizione e aderendo in maniera fideistica ed aprioristica ad una tesi accusatoria, senza preoccuparsi del suo destino, che solo un processo, ammesso che vi arrivi, e non le colonne di un giornale o gli strepiti televisivi possono sancire; relegando in un cantuccio le argomentazioni difensive, riassunte spesso con fastidio; ignorando o minimizzando le fasi attraverso le quali viene vagliata una attività investigativa.
Certo che è più semplice e comodo incollare veline, deresponsabilizzandosi e nascondendosi, vigliaccamente, dietro il paravento che offrono, ma per questo tipo di attività è sufficiente un bimbo che sappia soltanto smanettare sui computer. Non ineffabili portamicrofoni, scopiazzatori e cagnolini al guinzaglio del Tribunale della Santa Morale.
Cosa fare? La soluzione non è censurare le notizie, non pubblicarle, ma farlo, esercitando un dovere, tenendo dinanzi agli occhi (e nella testa) e alla testiera un principio: la presunzione di innocenza. Che significa rispetto di quanti restano impigliati in una inchiesta, evitando quella pericolosa sommarietà che, trascurando i diritti ed il loro bilanciamento con l'interesse di fare luce su possibili illegalità, ha trasformato gli studi televisivi in aule e i titoli di un giornale in un dispositivo di sentenza.
Una 'sentenza' senza dibattimento e contraddittorio, pronunciata non in nome del popolo italiano ma di quanti, avvelenati dal pregiudizio e dal sospetto, ne hanno approfittato, e continuano a farlo, per linciare i nemici e proteggere se stessi e gli amici.