Poste Italiane ancora nel mirino del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra (AVS), Franco Mari. Dopo due interpellanze, in Commissione Lavoro, per convincere il Governo ad includere quello dei portalettere tra i lavori usuranti, ora l’attenzione del parlamentare salernitano si concentra sull’annunciata privatizzazione della società, di cui lo Stato detiene quasi il 65% delle azioni.
Nel question time alla Camera, il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giancarlo Giorgetti, ha risposto a Mari confermando, di fatto, tutte le preoccupazioni espresse nell’interrogazione. Stando a quanto dichiarato dal titolare del Mef, se pure la quota pubblica dovesse andare sotto il 50%, cosa ormai certa, ciò non pregiudicherà il controllo dello Stato sulla società. Non è così, ha replicato al Ministro il deputato. Secondo il quale siamo evidentemente di fronte ad una vera e propria svendita, con rischi concreti per l’occupazione. Sono infatti ben 120mila i dipendenti di Poste Italiane e proprio in queste ore tutte le organizzazioni sindacali di categoria hanno lanciato una mobilitazione e iniziative di lotta per fermare la privatizzazione.
“Poste Italiane non è un’azienda qualsiasi - ha ricordato il parlamentare salernitano a Giorgetti - è, insieme al sistema sanitario, al sistema scolastico e al trasporto pubblico, una fondamentale infrastruttura sociale del nostro Paese”.
L’ufficio postale, infatti, è una presenza dello Stato anche in piccole frazioni dove non c’è la caserma dei carabinieri o l’ufficio decentrato del Comune. E la raccolta dei piccoli risparmi degli italiani viene fatta fisicamente negli uffici postali. C’è bisogno di fiducia per portare i soldi a qualcuno. E se quel qualcuno non è più lo Stato è facile che si riduca anche la fiducia. “È una scelta miope - ha ribadito il deputato di Alleanza Verdi e Sinistra - perché la dismissione del 20% di Poste potrebbe forse generare un incasso di 2,7 miliardi di euro, ma significherebbe perdere circa 260 milioni di euro annui di dividendi, con una perdita evidente e senza alcun vantaggio per la riduzione del debito pubblico. Ed è anche una scelta debole perché subalterna all’Europa, dove la premier Meloni aveva detto che non avrebbe fatto accordi al ribasso, battendo se necessario i pugni sul tavolo nell’interesse nazionale. Invece queste svendite sono proprio l’effetto del ripristino del Patto di Stabilità, accettato anche dall’Italia senza colpo ferire. E proprio per provare a evitare probabili sanzioni si avvia un piano di privatizzazioni che prevede la cessione di quote di Eni, Poste Italiane e persino Ferrovie dello Stato. Cos’altro possiamo aspettarci - ha chiesto Mari al ministro dell’Economia e delle Finanze - da una riduzione della presenza pubblica in società che operano in settori strategici come Enav, Enel, Eni e Leonardo, se non una ulteriore difficoltà per la nostra economia, anche a stare dentro la crisi delle maggiori economie europee. In pratica si smontano settori strategici, dopo aver già ceduto la rete telefonica, con la svendita di Tim a Kkr, e quella autostradale”.
Mari, infine, ha accusato il Governo di affrontare le spese dello Stato usando sempre i soliti strumenti. “La fiscalità generale, sempre più iniqua grazie a condoni e flat tax; il debito pubblico, tanto pagheranno sempre i soliti noti, cioè i lavoratori dipendenti; la vendita del patrimonio pubblico, come in questo caso, sebbene abbia sempre prodotto risultati pessimi per l’occupazione e per la qualità dei servizi. Anche questo Governo, insomma, perfettamente in linea con i precedenti, si rifiuta di guardare all’unica possibilità che abbiamo, cioè la tassazione della ricchezza, il recupero dell’evasione fiscale e il ritorno degli extraprofitti nelle tasche delle famiglie che hanno pagato in questi anni più del dovuto, soprattutto per le forniture energetiche”, ha concluso Mari.