Mentre gli italiani vivono la fase più complicata della loro storia, quella della ripartenza in un ambiente ancora pericoloso e senza chiare regole su come organizzarsi, il Senato italiano ha dato l’ennesima dimostrazione di occuparsi di altro.
La politica vive, ormai da decenni, un distanziamento sociale dal Paese reale e oggi ne è arrivata la dimostrazione più lampante in una discussione surreale sulla sfiducia ad un ministro della Giustizia che in questi anni, con le foto da circo con Cesare Battisti, le scarcerazioni dei Boss e le “trattative”, ha dimostrato di essere quantomeno non all’altezza della poltrona che, anche oggi, ha difeso con i denti.
Le dichiarazioni di fuoco dei giorni precedenti di parte della politica si sono silenziate e oggi in Senato è andata in scena una tragedia già annunciata dove a morire è stata la dignità di un’istituzione che dovrebbe rappresentare e discutere di noi italiani, delle nostre vite e dei conflitti che attraversano la nostra società.
Tanto rumore per nulla, anzi meglio, tanto rumore per qualche scambio, per un po’ di visibilità. Tanto rumore giusto per fare solo rumore.
Eppure l’Italia è piegata da una crisi sanitaria che ha distrutto i comparti portanti della nostra economia. I lavoratori sono ancora in attesa della cassa integrazione; le aziende non sanno come, quando e se potranno davvero ripartire; gli autonomi sono stati accontentati con i 600€ e ora aspettano il prossimo bonus, le scuole sono chiuse con tutto ciò che comporta per le famiglie e per i lavoratori delle paritarie che sono in crisi profonda.
Era davvero questo il tempo per discutere della carriera ministro Bonafede?
Era davvero questo il momento di ragionare sul giustizialismo?
Era davvero questo il frangente giusto per aprire l’ennesima trattativa interna alla maggioranza?
La politica vive di tempi e, per quanto ci si possa illudere, ormai i tempi della politica italiana non rispondono più alle esigenze delle persone. Dopo mesi di lockdown non sono arrivati i fondi lì dove servivano e questo è palese. Dopo mesi di ragionamenti e studio, nessuno sa dare regole certe per come riaprire. Dopo mesi di sofferenza profonda nessuno sembra volersi davvero prendere cura dei più fragili. Si annuncia di dare visibilità agli invisibili, poi però si scopre che gli si riconoscono diritti a tempo. “Ti vogliamo visibile giusto per il tempo che servi a produrre, poi torna invisibile e non rompere” sembra questo il ragionamento.
Il 20 maggio del 1970, esattamente 50 anni fa, è stato approvato Statuto dei Lavoratori. Quello Statuto non è stato solo una legge, ma rappresenta una conquista di un popolo; un traguardo raggiunto dopo decenni di lotte fatte da chi non accettava in silenzio i soprusi. Quello Statuto ha rappresentato un modello innovativo di civiltà, di libertà e di democrazia che ha garantito giustizia e dignità nei rapporti di lavoro e nei luoghi fisici del lavoro, dalle fabbriche agli uffici, alle scuole.
Quella meravigliosa legge del 20 maggio 1970 si apriva con un articolo che rompeva la storia: “I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge”.
Quell’articolo 1 dello Statuto dei Lavoratori sanciva la libertà di avere opinioni politiche, cosa che prima non era affatto scontata. La politica, quella vera, allora era nelle fabbriche, nelle piazze, nei conflitti sociali, nei luoghi reali e si occupava di persone vere, di istanze reali, di questioni tangibili e per questo faceva paura. Oggi la politica si è rinchiusa nelle aule a discutere del nulla, a parlare di sé stessa, ad arrovellarsi sulle sue poltrone.
Fuori invece si avverte il bisogno di riscoprire proprio quella forza, quel coraggio, quella visione e quella capacità di sognare che fece raggiungere nel 1970 una riforma innovativa al punto di vista economico, civile, sociale e democratico
Oggi, davanti alle nuove schiavitù dettate dalle piattaforme digitali, davanti alle nuove insopportabili diseguaglianze frutto di un sistema economico contorto e aggressivo, davanti all’utilizzo, da parte dei datori di lavoro, della concorrenza orizzontale tra lavoratori per abbassare i costi della, ci sono tutti i presupposti per scrivere una nuova carta dei diritti dei lavoratori. A mancare è quel popolo e quella forza che allora trasformò il dramma individuale in un sogno collettivo.
Oggi a mancare è la politica, rinchiusa nei palazzi a parlare di equilibri e sfiduce mentre fuori il mondo prova a ripartire nel caos. Una caos che farà comodo ai più forti, a chi saprà approfittarne, ai soliti agganciati, organizzati, ammanigliati, a quelli con le spalle ben coperte. I tanti lavoratori abbandonati alle loro solitudini, i precari, i sommersi, i non salvati, gli autonomi, quelli che neanche hanno una categoria, saranno ancora più invisibili in questo mondo post-covid. A loro, a questa folta schiera, non interessa la carriera del ministro Bonafede e per loro non esiste alcuno Statuto.