Sono settimane drammatiche e spesso è nei drammi che vengono fuori, nella loro banalità, le cattiverie, le ignoranze travestite da saggezza, le parole indegne che non si possono pronunciare in tempi normali. Le frasi indegne del direttore di Libero, Vittorio Feltri, non sono scioccanti se si rimettono insieme i tasselli del racconto di queste settimane. Quando con la sua voce roca e fastidiosa Feltri ha detto, senza vergognarsene, che “i meridionali sono inferiori”, ha solo esplicitato quello che molti nascondono dietro ragionamenti meno diretti.
C’è stato chi ha cercato nella natura da scansafatiche dei meridionali la ragione del numero basso di contagi al Sud. Chi ha dovuto apprendere dalle televisioni straniere che a Napoli esiste un ospedale modello come il Cotugno, esempio della gestione del coronavirus nel mondo.
C’è stata la giornalista della Rai che in diretta da un Vomero spettrale, invece di raccontare l’innaturale vuoto di strade che normalmente pullulano di vita, ha provato in tutti i modi a mostrare altro muovendo la telecamera in cerca di qualche passante, di una macchina, di un’infrazione.
Sono state settimane di continue volgarità dette con toni più educati, con voci non roche e fastidiose come quella di Feltri ma frutto dello stesso pregiudizio atavico e razzista.
Le inaccettabili dichiarazioni dal direttore di Libero sono state ripetute quotidianamente da tanti giornalisti meno antipatici che le hanno avvolte in fasce di candido perbenismo.
Sentire Feltri dire “i meridionali sono inferiori” non può scioccare, è lo stesso che continua a ripetere di voler chiamare i gay “froci, culattoni o ricchioni”, è quello dei titoli da torcere le budella. Ma soprattuto è quello che è. Un cattivo senza maschere, un razzista che non si nasconde, al contrario dei tanti che hanno offeso il Sud senza ammetterlo, lui lo ha fatto senza filtri e senza giri di parole.
L’Italia è ancora divisa, spezzata, separata. Lo dicono i dati, lo dicono le decine di migliaia di giovani che devono lasciare il Sud per trasferirsi al Nord.
Ma i drammi, quelli veri non quelli raccontati, sono processi epocali che sovvertono l’ordine delle cose, vanificando ciò che prima era assimilato come certezza comune.
La Lombardia, la prima della classe, il territorio più ricco e sviluppato d’Europa, si è riscoperta fragile, incapace di gestire la situazione, schiava dei poteri economici che da sempre la governano, la trasformano, la costruiscono e la distruggono.
Nella nostra storia unitaria troppe volte i drammi del Mezzogiorno sono stati drammi confinati e rinchiusi in una storia tutta locale. Troppe volte le nostre tragedie sono state un marchio per declassare un popolo. Parole innocenti come “terremotati” e “colerosi” sono state riempite di significati negativi che sono servite a definire una comunità ricollegandola con cattiveria ad un dramma che le veniva addebitato come colpa.
In questa Italia storta però finalmente la fragilità e i fallimenti non hanno confini geografici. E oggi il dramma lombardo è un dramma italiano, non è confinato ad un margine padano, non è motivo di goduria per nessuno. Le bare di Brescia e di Bergamo sono piene di italiani non di lombardi, i medici, gli infermieri e gli eroi di questa storia sono italiani non di una parte del Paese.
Finalmente in questa Italia storta possiamo trovare le ragioni di un’unità mai conclusa, lasciando le voci dell’odio, roche o educate che siano, lontane dalla serietà del dramma che stiamo vivendo.