Quella che stiamo vivendo non è solo una crisi sanitaria, è una tragedia che ha ripercussioni violente sul nostro presente e sul nostro futuro e che dovrebbe spingerci a ragionare sul nostro passato. Questo sembra ormai chiaro a tutti, anche a chi sin dall’inizio ha voluto chiudere gli occhi, ai tanti che davanti alle bare ammassate hanno continuato a pensare ai propri fatturati, agli ordini, alle commesse, ai profitti. C’era chi promuoveva video emotivi per dire che Bergamo doveva continuare a correre, che Milano non si fermava. C’è stato chi, pur di tranquillizzare, gli investitori stranieri, ha deciso di sacrificare la salute dei lavoratori e di intere aree del Paese.
Dunque gli stessi che non volevano fermarsi oggi vogliono ripartire. Gli industriali hanno iniziato, da settimane, a lanciare il loro grido di sofferenza “bisogna riaprire ora, subito”. Eppure ieri cercavano il silenzio perché non conveniva fare rumore, non era il caso di far diventare zona rossa proprio le aree di quei capannoni ammassati, affollati, produttivi. Quei padroni e quei padroncini che oggi continuano a dire che il Paese non può reggere più questa situazione, sono gli stessi che quel Paese lo hanno tenuto al lavoro quando ormai la situazione non lo consentiva più. Sono quelli di Confindustria, quali che citano il Pil, quelli che vedono la crescita come un processo continuo, inarrestabile, infinito ed esclusivo.
Il loro, a differenza di tanti altri, è un grido che viene ascoltato. Un lamento forte che entra nei palazzi del potere, si siede nelle stanze dei bottoni e li preme a suo piacimento. Infatti non si parla d’altro da giorni se non di riaprire, non importa come e cosa ma solo tornare a produrre. E allora bisogna far tornare anche nei ranghi chi aveva pensato che fosse arrivato anche in Lombardia il momento di pensare alla salute pubblica, di fare chiarezza, di sbrogliare la matassa del contagio per vedere cosa e dove si è sbagliato. Bisogna tornare alla confusione, alla nebbia fitta e silenziosa nella quale far sparire gli errori e le responsabilità.
Per ripartire il governo, forse nel tentativo di spogliarsi di qualche altra responsabilità, ha messo insieme l’ennesima task force di menti eccelse, guidata da un manager che da Londra deve immaginare come riaprire l’Italia. Ogni task force, ogni tavolo tecnico o meno tecnico in ogni angolo della nostra penisola, avrà il suo documento, fa le sue valutazioni, raccoglie i suoi dati, e studia le sue app preferite.
Ogni proposta arriverà sulla scrivania di un governo che oggi sembra più interessato alla comunicazione e alle foto Facebook che a fare realmente i conti con il dramma che stiamo vivendo.
Ogni proposta arriverà e sarà masticata, digerita e ruttata dalle opposizioni che hanno dimostrato tutta la pochezza di una politica italiana senza dignità, senza classe dirigente e incapace di guidare un Paese ma solo di inseguire i flussi e i sentiment.
Un circo al quale purtroppo ci siamo abituati, che si concluderà con l’ennesima discussione in un parlamento che vive distanziato socialmente dalla realtà ormai da decenni.
La realtà è che in questo benedetto o maledetto Paese, in questa stanca e depredata Italia, in questa stretta e popolosa penisola, diventano sofferenze quelle di chi non soffre e restano inascoltate le urla solitarie dei tanti invisibili, dei tantissimi non rappresentati, di quelli che hanno perso davvero tutto e neanche si lamentano più perché tanto la loro voce non entra nei palazzi, non si siede nelle stanze dei bottoni, non partecipa alle task force.