La parola epidemia deriva dal greco e significa letteralmente “sopra il popolo”. Ad utilizzarla per la prima volta per descrivere la diffusione di una malattia è stato Ippocrate quando descrisse la “tosse di Perinto”, un’influenza che decimò la popolazione della città portuale dell’allora Grecia settentrionale.
Nel corso dei secoli questa parola si è definita e oggi rappresenta qualcosa di più preciso e di globalmente condiviso.
Ma in questi giorni di “chiacchiericcio” da campagna elettorale epidemica, il significato letterale è perfetto per descrivere la reale situazione italiana.
Siamo passati dal populismo che parlava alle pance e alle paure delle persone, ad una comunicazione fatta di parole “sopra il popolo”. I messaggi viaggiano sopra le teste, sorvolano la realtà, confondono le acque e nascondono i problemi reali.
Il coronavirus non sa nulla di geografia, è un microrganismo basico e privo di intelligenza che prova solo a riprodursi il più possibile. Ma intanto questo virus ha fatto emergere quanto siano inventate e finte quelle differenze e quei confini geografici che continuiamo voler far passare come leggi di natura e che invece sono costruzioni umane.
Questo virus non legge i giornali, non guarda la tv e non ha un profilo Facebook, eppure ha portato alla luce con chiarezza i pregiudizi, i preconcetti e il razzismo insiti nel linguaggio e nelle dinamiche culturali, economiche e politiche del nostro presente.
Questo virus non ha letto Marx eppure sta mostrando con nettezza che quel tipo di turbocapitalismo al quale ci eravamo abituati non è sostenibile e non si può ripartire senza ripensare all’idea stessa di capitalismo.
Questo virus non ha una sua opinione sul cambiamento climatico ma ci sta mettendo sotto gli occhi quanto siano incompatibili con la nostra esistenza, determinati sistemi di sviluppo e processi di produzione.
Questo virus non ha mai letto Gramsci eppure ha sovvertito la questione meridionale mostrando che la civiltà e l’inciviltà non sono racchiuse in una dimensione geografica.
Questo virus non si interessa ai mille distinguo della politica italiana e non si adatta al decentramento amministrativo fallito del nostro Stato, ma ha messo in luce la differenza tra classi dirigenti che hanno saputo affrontare l’emergenza e classi dirigenti che non sono state capaci di intervenire.
Il coronavirus ha rotto un velo di pregiudizi e diradato quella nebbia fitta di un linguaggio che si riempie di “qui su da noi” e di “lì giù da voi”. Un linguaggio tutt’altro che innocente, generato da una certezza di una superiorità culturale, economica e organizzativa di un Nord “locomotiva” e di un Sud addormentato, indolente, incivile, corrotto e sonnacchioso che impedisce a questo treno italiano di correre con i più veloci del mondo.
Quello che stiamo vivendo non è un conflitto Nord-Sud, non è l’ennesima rivincita di una parte del Paese maltrattata per decenni, non è revanscismo neoborbonico. Quello che stiamo vivendo è un dramma vero, con i morti veri, le paure vere e una “normalità” che non tornerà più come la ricordiamo. Quello che stiamo vivendo è un momento serio come i volti di chi impaurito si ritrova a lottare con un male del quale non si sa nulla. Quello che stiamo vivendo è un evento che non ha lezioni da darci e non ci migliorerà. I cattivi ne usciranno più cattivi e i buoni ne usciranno più deboli e stanchi. Non ci sono significati nascosti, c’è solo una natura che ci riporta con i piedi per terra e rompe tutte le nostre sovrastrutture, compresa quella del Nord efficiente e il Sud incapace. Questo è un dramma vero, profondo ed enorme del quale non ci libereremo facendo finta di niente.