Si inseguono le dichiarazioni di chi vuole rimettersi a correre, di chi vuole riaprire tutto e subito, di chi pensa ai danni subiti dai mercati e ai punti di pil che calano. Sono considerazioni giuste e spesso anche condivisibili, ma se non si parte da un ripensamento di fondo del sistema economico, sociale e politico non sono altro che tentativi, in alcuni casi anche mal riusciti, di conquistare un pizzico di visibilità.
Questa pandemia se qualcosa ci sta insegnando è proprio che correre non serve più. Il nostro mondo si è ammalato proprio perché incapace di rallentare. L’infezione ha corso su quelle connessione istantanee che per anni sono state l’architrave di una globalizzazione che ha fatto della velocità la sua forza. Il virus si è insinuato e riprodotto in quegli spazi sociali che rappresentano la natura stessa della nostra civiltà. Il contagio si è espanso grazie a quelle interconnessioni che hanno abbattuto distanze, spazi e tempi. La stessa idea di economie in perenne crescita si è infranta sul muro di questo virus tanto invisibile quanto devastante.
Certo l’esigenza di rimettere in moto non solo il Paese ma l’intero pianeta è chiara e non può essere messa da parte, ma la vera questione è come ripartire, non quando. La sfida che bisogna iniziare ad affrontare, sin da subito, è come ricominciare a vivere senza ritrovarsi nella stessa follia di prima.
Chi in questi anni ha avuto ruoli di governo oggi dovrebbe analizzare i fallimenti palesi del nostro sistema davanti a questa pandemia. Che fine hanno fatto i posti in ospedale? Dove sono le mascherine, i guanti, i camici, le tute? Dove sono le filiere strategiche, i rifornimenti, i piani di emergenza?
A queste domande dovremmo iniziare a rispondere prima ancora di pensare a quando ripartire.
Il distanziamento sociale non solo ci ha fatto scoprire l’importanza della socialità, degli abbracci, delle strette di mano, dello stare insieme, ma ci ha posto davanti agli occhi in maniera chiara quel conflitto antico tra salute e lavoro. Un conflitto nel quale per decenni in Europa si è consumato un confronto che aveva portato a compromessi accettabili tra la salute di chi lavora e l’interesse a generare profitti di chi investe. Quel conflitto silenziato negli ultimi decenni dalla convinzione che il lavoro neanche più esistesse, mentre si impoverivano fasce sempre più larghe della società e scomparivano i diritti. Un conflitto che si è risolto nella totale supremazia del profitto. I lavoratori moderni si sono trovati soli, senza rappresentanza, senza voce e senza più la possibilità di rispondere ad un capitale che invece diventava sempre più potente e non aveva più confini.
La chiusura di molte attività per garantire la salute dei lavoratori e la tenuta della salute pubblica è una scelta difficile che però riporta il mondo nella modernità, quella vera, quella nella quale la vita viene prima del profitto.
Ora lo Stato, quell’entità che per secoli l’umanità ha costruito per non lasciare nessuno solo, deve prendersi cura di chi è più in difficoltà e lo deve fare con nuove forme e leggendo finalmente le nuove dinamiche sociali nelle quali ci troviamo.
Quest’incubo non è una calamità, forse non era evitabile, ma è la coneguenza di un sistema di economico e sociale insostenibile.
Riaprire deve essere l’obiettivo, farlo valutando ciò che stiamo vivendo e ciò che questa pandemia ci ha mostrato è un dovere. Ripartire senza riprodurre le storture, gli errori, le ingiustizie di un sistema incompatibile con l’esistenza stessa dell’umanità, è l’unico percorso che può davvero dare un significato a questa pandemia.