Turetta e la sentenza che non mette la parola fine

Si continuano a perpetrare crimini contro il genere umano coniugato al femminile

turetta e la sentenza che non mette la parola fine
Napoli.  

Ora che Filippo Turetta ha avuto quella che, agli occhi di tutti, appare come la giusta punizione per il suo atroce e ingiustificabile delitto - il carcere a vita - sembra giunto per tutti il tempo di voltare pagina, confinare l'odiosità del fatto alla cronaca nera e voltarsi verso la "parte sana" di una società che mirerebbe, così com'è sua natura, con questo semplice e non so neanche quanto equo esito giudiziario, tanto a epurarsi quanto ad autoassolversi. Ma non è così.

Le sordide premesse che hanno armato la mano del ragazzo di Torreglia nel padovano sono, infatti, tutte lì, nel catino arido e sanguinolento di una società che, almeno nella sua parte maschile, sembra non riuscire proprio a evolversi, adattarsi ai tempi ormai mutati e diametralmente opposti a quelli del veteropossesso maschilista a oltranza, peraltro ormai da tempo privo di una qualunque ragion d'essere antropologica e civile.

Le pagine dei giornali sono piene di abusi di ogni genere su bambine, ragazze e donne più o meno mature. Non c'è un freno alla bestialità, non c'è rimedio all'infantilità becera e complice di un mondo, che non fa quasi mai quello che ha fatto a Filippo Turetta - scaraventato dietro le sbarre - preferendo il più delle volte blandire, aspettare, giustificare o salvare i barbari che credono che una donna sia per definizione ai loro comodi, servigi o capricci. E così, a dispetto dell'indignazione crescente dell'opinione pubblica, si continuano a perpetrare crimini contro il genere umano coniugato al femminile, senza che niente e nessuno riesca di fatto a impedire o anche solo a porre un benché minimo freno a questa mattanza fisica e psicologica.

Eppure in questa landa desolata in cui gli uomini appaiono sempre più grotteschi ed emarginati dal contesto - benché credano senza nessun fondato motivo di averne il pieno e incondizionato controllo - si stagliano ogni giorno sul palcoscenico mondiale nuove e valorose figure femminili, che rendono ancora più stridenti quelle mediocrità, quel sudiciume e quell'orrore. Ne cito tre che mi sembra costituiscano sfavillanti esempi, non necessariamente accomunati dalle storie, di un valore di genere che contrasta ogni giorno di più con chi quel genere pensa ancora di sminuirlo o soffocarlo. 
Le tre donne a cui faccio riferimento sono: Gisèle Pelicot, Francesca Ghio e Fatima Sarnicola.

La prima abusata a sua insaputa per 10 anni nel talamo nuziale da più di 50 uomini, a cui il marito Dominique ha concesso (dopo averla drogata) di violarle l'innocenza - è più facile possederla a 71 anni che a 21 - morale e fisica. Una perversione senza pari, di tutti, carnefice e stupratori, ripagata dalla minuta signora francese con il coraggio di mostrarsi al mondo ogni giorno, a ogni udienza, con la stessa fierezza incrollabile, simbolo, esempio, stella cometa per chi - altrettanto o ancora più orribilmente profanata - si vergogna, si apparta, si accolla senza tregua la colpa, tacendo, ingigantendo il suo immenso dolore e trasformandolo in un male insopportabile e talvolta mortale. Abbassare la testa e stare in silenzio, per anni, è quello che invece hanno provato a fare Francesca Ghio e Fatima Sarnicola.

La prima - agiata e giovane consigliera comunale di una Genova sbigottita e perbenista - violentata a soli 12 anni per mesi, forse anni, da un insospettabile "amico di famiglia".

La seconda, umiliata, seviziata e abusata in un orfanotrofio quando era ancora una bambina. Entrambe solo vittime, strumenti, giocattoli di un virilismo posticcio, fino al giorno in cui hanno deciso di parlare, denunciare e insegnare ad altre a fare altrettanto. Mi piace pensare che se queste donne hanno dato un risalto personale e mediatico alle loro atroci storie c'entri in qualche modo chi la fortuna di riscattare in vita l'oltraggio subito non l'ha avuta, che avesse gli occhi felici e innocenti di Giulia Cecchettin o quelli stanchi e disillusi di Maria Arcangela Turturo.

Così, alla fine, condanna o non condanna, esemplare o meno, ha ragione Elena Cecchettin (la sorella di Giulia) - "Alle istituzioni non importa delle donne. Sei vittima solo se sei morta". E la battaglia ricomincia, quasi da zero, ma fuori le aule di tribunale, come ha dichiarato lo stesso Gino Cecchettin subito dopo la lettura della sentenza che seppelliva per sempre in una cella Filippo Turetta, non le sue abominevoli ragioni.