Le tre lezioni (inascoltate) delle regionali in Liguria

Dall'astensionismo alle dinamiche locali ma di sicuro la campagna denigratoria non ha pagato

le tre lezioni inascoltate delle regionali in liguria
Napoli.  

Non amo sempre parlare di politica, tanto più se ciò di cui tratto attiene ad argomenti oggetto di controversie tra belligeranti, accuse reciproche che si muovono inesorabili oltre i limiti (pare ormai non certi) della civiltà e del buonsenso. Ma qualche commento lo vorrei fare sulla vicenda ancora palpitante della elezione regionale in Liguria, se non altro per l'opportunità che mi dà di analizzare aspetti da molti sottovalutati negli animosi commenti che le sono succeduti. La storia la conoscete bene tutti.

L'ex governatore della Liguria, il viareggino Giovanni Toti, ex (pure) forzista, diventato battitore libero nell'eterogeneo panorama politico e umorale del centro-destra, dopo nove anni (e una rielezione) al governo del novecentesco Palazzo Generale della Navigazione Italiana, è finito nella valle oscura del do ut des e da qui nelle grinfie della giustizia, a volte ingiusta, altre volte tardiva, ma - fatte salve rare e incomprensibili eccezioni - infine (dopo tutti i gradi di doveroso giudizio) sempre dalla parte delle sancite ragioni dei cittadini e mai dei torti da loro subiti. Qualcosa è accaduto, dunque, lungo il percorso politico di Toti di non conforme ai codici di legge e sarà lui a doverlo dimostrare nei modi e nei tempi che lo stato italiano, di cui lui (ancor più di tutti noi) è servitore, gli consentirà.

Questo era lo scenario quando è partita la breve e convulsa campagna elettorale per portare sullo scanno più alto di Piazza De Ferrari il nuovo governatore.

Da una parte correva col centro-destra unito il sindaco di Genova, il genovese doc Marco Bucci, e dall'altra, col "campo largo" del centro-sinistra (lo virgoletto perché non si sa mai quali siano i suoi confini né quanto sia largo, a seconda delle opportunità offerte dalle tornate elettorali e dalle sedi in cui esse si svolgono, comprese quelle che toccano l'intero territorio italiano), era sceso in campo lo spezino Andrea Orlando, pezzo da novanta del partito democratico e riferimento dottrinale e politico per molti dei suoi elettori. Il risultato non ha arriso al secondo ma al primo.

Confesso che per me è stata una sorpresa: ero certo che, alla luce degli sconvolgimenti giudiziari che avevano fatto miseramente crollare l'immagine del centrodestra in Liguria la coalizione opposta (anche in virtù della credibilità e della indubbia moralità del suo candidato) avrebbe vinto a mani basse. Così non è stato. Ognuno, a seconda della parte ideologica da cui sta seduto, ha potuto addurre le sue ragioni, svolgere con dovizia di particolari la sua analisi, mostrare le sue tabelline e i suoi confronti con un passato che si immagina già foriero di un roseo futuro. Ovviamente non sono mancate le consolidate eccezioni alla sconfitta né le nuove ragioni apposte alla vittoria.

Si è messo sul piatto della bilancia il peso di questo (Claudio Scajola in primis) contro l'inconsistenza di quello (Giuseppe Conte su tutti), riportando ogni cosa a un dato nazionale che a onor del vero sembra essergli del tutto estraneo.

La vera lezione non colta - dal centrosinistra in questo caso, ma la sua controparte, messa alla prova, non gli è spesso da meno - sta tutta nella campagna puntualmente denigratoria messa in piedi, quando bastava dar voce ai bisogni insoddisfatti dei liguri dopo nove anni di governo regionale conservatore, cogliere quel lato debole dell'azione politica fin lì svolta, non irridendola e non criminalizzandola, ma rilanciandola - qualcosa di buono avrà pure fatto - per migliorare la vita della comunità che con ponderazione, onore e amore si voleva andare a guidare. A un campano come me non interessa se i miei connazionali liguri si siano fatti gabbare prima da Toti e poi dai maneggi di Scajola - certo me ne posso rammaricare, ma finché c'è il libero arbitrio democratico lascio che sia lui il giudice supremo delle scelte di un territorio - ma ho molto a cuore ogni possibile lezione che da quella esperienza si può trarre, senza ogni volta invocare sventure per chi ha scelto altrimenti. E la seconda lezione è ancora più semplice della prima: una votazione regionale sottace regole non scritte che attengono ai radicamenti territoriali più che alle supreme ragioni nazionali e il suo risultato, per quanto indicativo di tendenze politiche, non è assimilabile a una tornata che coinvolga l'intero paese. Fa però eccezione un dato (terza lezione): l'astensionismo muto e ingravescente che pervade ormai ogni angolo di questa nazione. E quello non è colpa di una sola parte politica, non segue le regole del bianco e del rosso, non ha bandierine o freccette da mostrare, non è appena nato. È, piuttosto, il dato vergognoso che chi governa un popolo deve prendere a vera e sola misura della sua ingiustificabile sconfitta, l'unico da analizzare con serietà, il primo a cui porre immediato rimedio.