Influencer e influenza, due parole non a caso simili

Oggi non riusciamo più neanche ad alzare lo sguardo dalle nostre fatue occupazioni

influencer e influenza due parole non a caso simili

Aspettiamo tutti (o quasi) di sapere chi siamo da altri - ai nostri occhi (e ai nostri cuori) molto più sconosciuti di quanto non lo siamo già a noi stessi - cosa fare e cosa dire.

Napoli.  

Provo a farmene una ragione, ma proprio non ci riesco. Tutto è influenzabile e tutto è influenzato. Del resto è una vecchia e consolidata logica di mercato. Perchè poi, in fondo, è l'umanità stessa che è un grande, gigantesco bazar. Tutto deve essere appetibile e tutto è in vendita. Chi sa o può fa e chi no subisce le regole del commercio. Ora che ogni angolo della Terra è connesso in ogni istante col suo opposto poi più che mai. Allora di cosa ci stupiamo?

Bambini che fanno i grandi (anche come imprenditori) e grandi che fanno i bambini, madri che invidiano (e imitano) le loro figlie e padri che escono travestiti da teenagers, si fidanzano e fanno (a loro volta) figli, pure a 80 anni (vedi Robert De Niro), senza pensare se - rubando una battuta a "Harry ti presento Sally" - sono o meno "in grado di tenerli in braccio". È la legge del consumo e dell'apparire, anche in assenza di una sostanzialità sana e spendibile.

Perfino i sentimenti sono diventati un bene di consumo, e un'occasione per esporsi nel grande emporio del web e dei suoi figli più degeneri, i social network. Dove sono finiti i vecchi e buoni padri di una volta che si sedevano a tavola alle 20.30 e guai se qualcuno del (per lo più numeroso) gruppo famigliare era assente? Neanche dotato di certificato medico ti potevi esimere dal desco serale.

Oggi tra telefonini, tablet, video (meglio se con giochi), serie televisive, tik tok e altre declinabili forme di apparenza - o insolvenza - abbiamo una vita così indaffarata e incalzante che non riusciamo più neanche ad alzare lo sguardo dalle nostre fatue occupazioni, altro che cene comuni, preghiere propiziatorie, resoconti scolastici, confessioni, risate e confronti. Aspettiamo tutti (o quasi) di sapere chi siamo da altri - ai nostri occhi (e ai nostri cuori) molto più sconosciuti di quanto non lo siamo già a noi stessi - cosa fare e cosa dire. Sono altri a educarci.

Eppure in questo burattinaggio assoluto e incondizionato, in questa ebete subordinazione senza appello, c'è perfino chi esprime la sua opinione, per lo più adescante ovvero livorosa - anche questa è considerata una modalità ammaliante - per far finta di contare qualcosa, avere un'identità, un peso sociale. In questa evaporazione generale di valori e umanità c'è chi si industria per contare, non solo gruzzoli di danaro, presumendo perfino di riuscirci.

Tutto diventa spettacolo - o più propriamente avanspettacolo - al solo scopo, neanche così conclusivo, di aggiungere una mostrina e allargare così il numero o la forza dei propri "gruppi di appartenenza", in un degradante processo che prevede solo come estrema e invisa opzione finale l'individualità o la (pur benefica) solitudine. Chi saremo domani è sempre meno dato saperlo, tra un magnate delle tecnologie avanzate che vuole impiantare un chip nel cervello per "controllare telefono e pc" e chi oltraggia una influencer in disgrazia che racconta della sua esperienza positiva in un albergo alpino italiano, salvo poi subissare quello stesso albergo di visite virtuali e concrete prenotazioni future.

E se la malattia influenzale deve la sua etimologia al (pre)supposto (e superstizioso) effetto condizionante degli astri sull'insorgenza e il decorso delle malattie di una volta - dal latino unflúere, scorrer dentro, insinuarsi, inondare - così l'influencer, il parassita tanto agognato, che oggi tutto il mondo ha emancipato a casta sempre più vasta, potente, ricca, e - va detto con chiarezza - anche più superficiale, rozza e ignorante, ci arreca ogni genere di nocumento psichico e morale, condizionando dal profondo le nostre scelte e le nostre azioni dalla più tenera età alla vetustà più avanzata e insospettabile, e lasciando un'impronta indelebile sui nostri sistemi di pensiero e di comportamento.

E se qualcuno di questi untori da strapazzo esce di scena altri dieci sono pronti a subentrare, secondo il buon vecchio principio che è nell'urgenza o nell'aumento di dose di quanto abusato che risiede ogni autentico e duraturo stato di dipendenza. Come per le virosi respiratorie stagionali così, in questo magmatico "adescamento sociale" senza precedenti, il malcapitato di turno è vinto, per mano più occulta che manifesta, da una entità morbosa a rapida contagiosità e diffusibilità e con scarsa possibilità di "opposizione terapeutica", che non sia la (per lo più) ignorata e ormai impraticabile prevenzione. Anche per la sudditanza al web e ai suoi pervicaci "consigli per gli acquisti", infatti, l'unica strategia possibile e nobile sarebbe anticipare il danno prima che avvenga, piuttosto che vaticinare (senza applicare) una cura che nella maggior parte dei casi è solo palliativa. Ma, in mancanza di un vaccino, che peraltro nessuno pensa neanche lontanamente di creare e produrre, preferendo di gran lunga la schiavitù di un "nuovo e rivoluzionario dispositivo intracerebrale" che abbrevi le latenze di contatto col mondo e ci tolga anche l'ultimo brandello di intellettualità, non resterebbero che le norme di igiene sociale - un po' come accaduto in piena pandemia mondiale da Sars-Cov-2 - cioè i comportamenti di chi dovrebbe dare l'esempio, ancor prima di educare o formare.

Ma quale esempio potremo mai essere per i nostri figli se noi adulti per primi - sul lavoro nel sociale e in famiglia - preferiamo la scorciatoia del "vivi e lascia vivere", equivalente al "serve per gli anticorpi" di antica memoria, manco parlassimo di un virtuoso processo di immunizzazione, piuttosto che scegliere un più oneroso e civilizzante percorso educativo e morale, che nessuno è peraltro più in grado di reperire, nel singolo come nella comunità, disperso com'è in mezzo alla confusione asfittica, imbellettante e boccaccesca dei tempi moderni?