Tutto è cominciato molto prima che il caso deflagrasse in tutta la sua sconcertante drammaticità. Questo è ciò che solitamente accade in ogni storia - mi direte - affondando ciascun evento in mille passi e azioni, individuali o collettive, che lo precedono, lo mutano, lo determinano ovvero lo condizionano. E mai come in questo caso i ben noti fatti che sto per commentare sono figli dei nostri tempi, dei suoi privilegi e delle sue distorsioni.
Una ristoratrice lodigiana 59enne - l'età ha il suo peso nella vicenda - come ce ne sono tante in questa nostra penisola piena di differenze, particolarità, cali di valore, eccellenze, preziosità e tradizioni, tal Giovanna Pedretti, pare molto combattiva e appassionata del suo lavoro, assidua frequentatrice di social network, tanto per presentare i suoi piatti che per difendere le sue scelte culinarie e non, era finita nella ragnatela delle sue stesse frequentazioni web 2.0 a seguito di un post controverso. O meglio, un suo messaggio pubblicato su Facebook a difesa di gay e disabili e a offesa di un avventore omofobo e razzista era finito, non si sa come o perché, sotto la lente di ingrandimento di un food blogger (non chiedetemi con esattezza cosa significhi) 33enne - anche qui gli anni del soggetto contano - tal Lorenzo Biagiarelli, ex rockettaro, assurto agli onori della gloria (e di una trasmissione televisiva con la Clerici) più per essere il fidanzato di una 49enne - come non pensare che più che mai qui l'età ha un suo peso - giornalista, opinionista e blogger (pure lei), Selvaggia Lucarelli (in questo caso il "tal", non so se dire per fortuna o purtroppo, non ci va), da sempre non dotata (diciamo così) di innata simpatia.
Il presunto chef avrebbe avviato una "inchiesta" serrata sul post in questione, degna di Maigret o di Sherlock Holmes, ricavandone il dubbio, l'impressione, badate bene (lo ripeto) l'impressione, puntualmente sbandierata ai quattro venti, che lo stesso fosse fasullo, anzi, che fosse la replicazione di un altro, diventato virale qualche anno prima, messo ad arte dalla "ingannatrice" lombarda per attirare like e complimenti, di certo poi forieri di nuove e appagate folle di clienti. Tanto era bastato perché molti di quei pecoroni, che si erano sbellicati senza ritegno le mani per applaudire l'onesta e coraggiosa taverniera lombarda fino a qualche ora prima, ne erano diventati i suoi più acerrimi e volgari accusatori. Subissata da tanta infamia, forse anche ripresa per strada nel suo piccolo paese o - qualcuno sussurra - terrorizzata per una brusca perdita di clientela che avrebbe potuto arrecarle un danno economico fatale dopo tanti anni di sacrifici e difficoltà non si sa quanto superate, la Pedretti non avrebbe retto e si sarebbe uccisa gettandosi in un canale fluviale nelle vicinanze del suo ristorante.
Sfumo sulle alzate di scudi a difesa dell'una e dell'altra parte in guerra - questa è, infatti, diventata la modalità con cui ciascuno ha affermato le sue ragioni - e sul trasferimento di una rinnovata e ben più folta massa di odiatori questa volta avversa ai due colombi delatori. Resta il fatto che c'è andata di mezzo una morte - assurda, incomprensibile, grottesca addirittura -in quanto figlia di quel bisbiglio pettegolo e provinciale che abbiamo trasferito tout court dalle peggiori tradizioni italiane del dopoguerra a oggi, con la differenza che su un social scrivono tutti (per lo più in una forma mascherata da un anonimato più becero degli argomenti trattati) e, soprattutto, leggono tutti, anche chi nella vita non ha sbirciato, temendo di non capirli, neanche i bigliettini dei Baci Perugina.
È tutto un fiorire continuo e assordante di banalità, idiozie, cattiverie, sfoghi, esibizionismi verbali, e (ahimè) non solo, in cui il primo esperto - non si sa se a torto o a ragione - di qualcosa a caso, si arroga il diritto (a suo dire il "dovere") di renderci edotti sulla sua "verità", spacciandola tanto per assoluta quanto per necessaria (al volgo in attesa). È infatti stata proprio questa la difesa di sé stesso promossa, sempre via social, dal giovane censore di cibo e derivati, ripresa con vigore periclimaterico peraltro anche dalla sua famosa fidanzata. "Mi dispiace che pensiate che la ricerca della verità possa avere queste conseguenze" - ha scritto. E concludendo con un autoassolvente - "Se ogni persona che tenta di ristabilire la verità in una storia, grande o piccola che sia, dovesse temere questo epilogo a quel punto dovremmo chiudere tutto, giornali e social".
È questo il vero punto della tragica storia, peraltro misera e triste: c'è chi crede che basti invocare la "verità" per giustificare ogni comportamento, anche il più scellerato. Ma la "verità" ha mille facce e generalmente nessuna è rivolta a un egocentrismo sfrenato o un arrivismo amorale. Pertanto prima di ammantarsene come di un abito talare o di un ermellino regale forse sarebbe meglio chiedersi "cui prodest", "a chi giova" e, se la risposta è "solo a me stesso", forse sarebbe buona norma lasciar perdere e far vivere le persone come vogliono.
Una donna sarebbe oggi al lavoro e a qualcuno fischierebbero - a giusta e colpevole ragione - meno le orecchie. Haruki Murakami ha scritto: "La maggior parte delle persone non crede nella verità, ma in ciò che desidera sia la verità. Per quanto questa gente possa tenere gli occhi bene aperti, in realtà non vede niente." Solo sé stesso, aggiungo (ancora) io.