Turetta, il "serial killer" delle ragazze in fiore

"Non si diventa mostri in una notte" - lo hanno detto in tanti - e a giusta ragione.

turetta il serial killer delle ragazze in fiore
Napoli.  

Come si fa a parlare d'amore a un figlio? Credo sia facile, se lo testimoni ogni giorno con i tuoi sentimenti nei confronti delle persone che ti sono accanto, ma anche con tutti quei comportamenti onorevoli, anche quelli indifferenti all'amore, che non possono da esso essere disgiunti. Non tutti ne sono capaci, però, lo ammetto, ma bisogna provarci, e per tutta la vita.

Ora, immaginiamo che uno dei nostri ragazzi un giorno ammazzi una ragazza. Volontariamente. Una sua coetanea. Magari la sua fidanzata o quella che lui aveva ritenuta tale al di là dell'evidenza dei fatti. Magari (lui) portava con sé il fardello insopportabile dell'amore finito o, a suo giudizio, disatteso. Magari (lui) avrebbe voluto non fosse così. Come glielo spiego - io genitore - che ostinarsi a perpetuare un bisogno personale, in un legame sentimentale come in tante altre interazioni sociali, è la chiave sbagliata di un rapporto, la toppa da cui spii la stanza credendo di appropriarti del panorama ma ne osservi solo un pezzo, e forse neanche il più veritiero?

Che esempi (tu genitore) puoi aver mai dato a quel figlio nei giorni millesimati dell'infanzia e dell'adolescenza in cui si costruisce tutto, mattone dopo mattone, in cui si striscia o si vola? Magari tu (genitore) pensi di non entrarci nulla e credi che l'energia del suo fuoco giovanile semplicemente non pareggiava la passione ricambiata o che il furore dell'unicità mutava il desiderio in capriccio. Possono essere queste le attenuanti generiche per un figlio, il "bravo ragazzo" dalle mani lorde di sangue? O forse i sorrisi (di lei) erano rivolti al futuro e non a quel presente, o meglio a quel passato, che (lui) non avrebbe mai voluto oltrepassasse, non avrebbe mai accettato dimenticasse?

Ma la vita è un fiume in piena e il sangue che le scorre dentro pure. E le storie d'amore, si sa, seguono il loro corso, né buono né cattivo. Solo quello necessario, quello in qualche modo dovuto. Un'onda raggiunge la riva se ha la forza per farlo. Quella che non lo fa è destinata a finire prima.

Non tutte le persone che amiamo sono la nostra destinazione finale, la maggior parte sono solo un pezzo del viaggio, un'interlocuzione del nostro (unico e universale) discorso amoroso. Anche quando sono le madri o i padri dei nostri figli. Perfino (o sprattutto) quando i momenti, le parole e le lacrime - per lo più ininfluenti - hanno scavato un solco indelebile nella nostra memoria e nei nostri cuori. Ci sono - l'ho già detto - persone che sono solo stazioni di sosta, altre che diventano l'alveo, l'approdo dei nostri respiri e dei nostri affanni. Si chiamano simmetrie, quando ci sono si chiude un cerchio, se mancano giriamo in tondo, come uccelli impazziti in una stanza. La colpa non è di chi va via e (forse) nemmeno di chi non è stato in grado di trattenerci, di chi non ha saputo fornirci le ragioni (del cuore) per restare.

Che bella la certezza del completamento, che meraviglia l'incanto di una porta aperta, che giornata meravigliosa è quella in cui la rivedi sulla soglia e te ne rinnamori! E che orrore la forza con cui la fermi, la rabbia con cui la trai a te, la protervia con cui la nomini senza stupirtene, la puerilità con cui la reclami, la condiscendenza con cui la sposi!

Ora, se un padre parla di "embolo" - un surrogato del raptus - l'alibi inesistente dell'arido e del malato, vuol dire che è lì che si è consumato il delitto, nelle grige stanze di una quotidianità senza picchi, senza confronti, senza grida. Nessuno deve aver riconosciuto più nessuno. E chi sa da quanto.

Il padre non sa chi sia il figlio, il figlio non sa chi sia lui stesso, il fratello, gli amici. La fidanzata (o quella che ha considerato tale) diventa solo lo specchio delle sue angosce. Come ha osato avere un volto diverso da quello che era stato (da lui) immaginato? Come ha potuto precedere lui che era rimasto indietro a interrogarsi? Come ha pensato mai di avere un futuro oltre le strade vuote, le periferie deserte, le soffocanti domeniche in famiglia? Altro che patriarcato?

Qualcuno ha ascoltato la madre? Nessuno. Un viso livido e dismesso, uno sguardo impassibile più che sgomento, è lei la protagonista della storia e ne è diventata - per celia o per calcolo - la comprimaria. O forse lo è sempre stata. Tenuta giocoforza in disparte per asfissia, voce contorta, strada accidentata, grido soffocato. È lei il movente, perciò tace. Sa bene che quel figlio insospettabile è un'appendice dei suoi mali, uno dei tanti lasciati in pace a crogiolarsi, arrovellarsi, inistruirsi, ammalarsi. Fino ad assassinarsi. Eggià perchè è proprio lui il grande carnefice di sé stesso e del (suo) mondo che tanto odia. "Non si diventa mostri in una notte" - lo hanno detto in tanti - e a giusta ragione. Infatti, ci sono voluti decenni di parole bastarde, vuoti concentrici, verità taciute di una famiglia, già di suo scaduta nell'anonimato, per generare un "serial killer". Quello che, fermando il cuore di un unico angelo, con quel reiterato (per ben 22 volte) gesto, ha sterminato una moltitudine gentile e sorridente di vite - le ragazze in fiore - che aspettano da sempre solo di spiccare il volo.