Il nostro Paese mostra spesso il peggio, lascia che a dominare i momenti e gli spazi comunicativi, culturali, politici e pubblici in generale, siano figure mediocri, divisive, inutilmente banali.
Il nostro meraviglioso e affascinante Paese troppo spesso viene svilito da chi, forse incapace nel reggere tale bellezza, prova ad abbrutirlo per renderlo più semplice, più avvicinabile, più simile a loro, preferisce urlare piuttosto che ragionare, che fa vincere la prepotenza alla gentilezza, che fa prevalere la sguaiata volgarità sul genio gentile e delicato.
Il 2 novembre l’italia ha perso uno degli uomini che questo Paese lo ha saputo leggere, lo ha saputo raccontare e soprattutto lo ha saputo interpretare.
Gigi Proietti non era solo un attore, sarebbe riduttivo, era tra le poche anime del nostro mondo culturale capace di mostrare il meglio di questo Paese, a dimostrazione che le eccellenze prevalgono sempre e lo fanno senza schiacciare gli altri. La sua voce, la sua mimica, il suo essere italiano sono un patrimonio che ha lasciato ad un popolo che ha bisogno di ritrovarsi.
Ricordarlo con le stesse parole che lui pronunciò al funerale di Alberto Sordi, con quel sonetto con cui salutò un altro genio capace di raccontare gli italiani, significa provare a far uscire la sua grandezza anche dalla banalità di un ricordo collettivo che rischia di spegnersi troppo presto.
Voglio salutare sinteticamente con quattro versi, perché Alberto mi perdonerà, forse non saranno nobilissimi ma fanno parte di un sonetto.
Il sonetto come molti sanno è stato sempre nella nostra città un modo di comunicare di annunciare nascite, morti, prese in giro, rappacificazioni. È una sintesi fatta di pochi versi perché tanti discorsi io non li so proprio fare.
«Io so' sicuro che nun sei arrivato ancora da San Pietro in ginocchione,
a mezza strada te sarai fermato a guarda' sta fiumana de persone.
Te rendi conto sì ch'hai combinato,
questo è amore sincero, è commozione,
rimprovero perché te ne sei annato
rispetto vero tutto pe' Albertone.
Starai dicenno: ma che state a fa',
ve vedo tutti tristi nel dolore
e c'hai ragione,
tutta la città sbrilluccica de lacrime e ricordi
'che tu non sei sortanto un granne attore,
tu sei tanto di più, sei Alberto Sordi»