La legge Zanettin, pur sbandierata come riforma della privacy e del garantismo, appare come un testo ricco di contraddizioni e problematiche pratiche. Le proteste dei magistrati e la confusione normativa rischiano di indebolire ulteriormente la giustizia italiana, proprio in un momento in cui la capacità investigativa risulta cruciale per la sicurezza e la tutela dei cittadini. L’ok finale è arrivato dopo una seduta fiume durata oltre sei ore: con il voto favorevole di tutto il centrodestra (mentre Azione e Italia Viva decidono di non partecipare alla votazione), mercoledì scorso la Camera ha approvato in via definitiva la legge Zanettin sulle intercettazioni telefoniche, introducendo un limite massimo di 45 giorni per gli ascolti autorizzati dai magistrati.
La nuova norma, che porta la firma del senatore forzista Pierantonio Zanettin ma riscritta da un emendamento governativo, rappresenta la seconda grande riforma della giustizia penale dopo la contestata legge Nordio, che ha cancellato l’abuso d’ufficio e indebolito il reato di traffico di influenze.
Cosa prevede la nuova legge
La legge appena approvata cambia profondamente le modalità operative delle intercettazioni telefoniche: se fino ad oggi era possibile ottenere proroghe successive di 15 giorni ciascuna, purché giustificate da gravi indizi e dall’indispensabilità investigativa, con il testo Zanettin gli ascolti non potranno superare i 45 giorni complessivi, a meno che la Procura non dimostri al giudice «elementi specifici e concreti» che giustifichino ulteriori proroghe.
Le proteste della magistratura: «Così diventa impossibile indagare»
I magistrati hanno subito sollevato forti perplessità. Francesco Lo Voi, procuratore capo di Roma, ha spiegato chiaramente come i 45 giorni non siano sufficienti nemmeno per capire quali utenze telefoniche siano effettivamente in uso dagli indagati: «Solo per individuare quali telefoni intercettare servono almeno trenta giorni – ha denunciato Lo Voi – questa legge equivale di fatto a un divieto di indagare».
Ancora più netto il giudizio espresso da Roberto Scarpinato, ex procuratore antimafia oggi senatore M5S, che ha evidenziato come nelle indagini più delicate e complesse – soprattutto quelle contro le organizzazioni criminali – servano anche quattro mesi solo per decifrare e comprendere linguaggi criptici e modus operandi dei criminali.
Il paradosso dei sequestri di persona
La nuova normativa rischia di produrre situazioni paradossali. Il pm di Foggia, Enrico Infante, ha fatto un esempio eloquente durante l’audizione in commissione Giustizia: «È come dire ai rapitori di non chiedere il riscatto per i primi 45 giorni, aspettando il quarantaseiesimo per comunicare la richiesta». Un’assurdità pratica che, secondo Infante, dimostra la scarsa conoscenza delle dinamiche investigative da parte del legislatore.
La deroga (non voluta) per i reati di corruzione
Nel tentativo di rispondere a queste critiche, il centrodestra ha previsto una deroga: niente limiti di tempo per intercettazioni nei casi di mafia, terrorismo e – indirettamente – anche per corruzione, concussione e peculato. La maggioranza, infatti, ha fatto riferimento a una legge speciale del 1991 dedicata ai reati di criminalità organizzata, ignorando però che una successiva norma del 2017 aveva esteso questa disciplina anche ai reati contro la pubblica amministrazione puniti con pena superiore ai cinque anni. Un “errore” probabilmente involontario, come evidenziato da Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale presso l’Università Statale di Milano.
Così, paradossalmente, mentre si salva la possibilità di intercettare politici e amministratori corrotti, si indebolisce pesantemente la capacità investigativa della magistratura sui reati comuni, inclusi quelli introdotti proprio da questo governo, come i rave party, l’aggressione a medici e poliziotti, o ancora il femminicidio, per il quale la stessa maggioranza aveva recentemente presentato un disegno di legge con grande enfasi.
L’ultimo regalo ai presunti criminali
In coda al dibattito parlamentare, il governo ha accolto un controverso ordine del giorno presentato dal deputato di Forza Italia Tommaso Calderone, che impegna l’esecutivo a limitare l’utilizzo delle intercettazioni cosiddette “terze”, quelle cioè in cui due persone intercettate parlano di reati commessi da altri. Secondo Calderone, per poter utilizzare queste conversazioni come prove, i magistrati saranno obbligati a trovare riscontri ulteriori e concreti rispetto alle sole dichiarazioni captate.
Tradotto in pratica: se due persone intercettate per droga parlano tra loro indicando un terzo come complice, questo terzo soggetto non potrà più essere arrestato sulla base delle sole dichiarazioni intercettate, anche se ritenute attendibili. Un’altra decisione che rende più difficile l’indagine giudiziaria e rischia di favorire indirettamente la criminalità.