di Francesco Di Sibio
Nella piazza qualcuno diceva che fossero stati compagni di studio ai tempi dell’università. Non si sarebbe spiegato altrimenti l’accanimento col quale per la sesta volta in vent’anni il famoso comico Gatta ci Cova sarebbe salito sul palco della festa di San Rocco su invito della masta di festa. Anzi, si sosteneva che durante il pranzo del matrimonio della delegata agli spettacoli della festa paesana il mitico Gatta si fosse esibito per la prima volta in assoluto col suo cavallo di battaglia, o meglio, con quello che poi lo sarebbe diventato. Erano trascorsi quasi quattro lustri e la memoria si confondeva con l’immaginazione.
Di sicuro quel periodo era stato il migliore in assoluto per la comicità napoletana delicata e sensibile di Gatta ci Cova. Non era ancora subentrata la moda italiana di infarcire i monologhi di parolacce, più o meno becere, per recuperare applausi altrimenti impensabili.
Proprio in quegli anni l’attore ebbe le sue esperienze più conosciute: una serie di passaggi all’interno di una nota trasmissione televisiva mandata in onda dalla tv e una particina in un film, un totale di 15 secondi sul grande schermo e cinque parole pronunciate: dimmi, ora che si fa?, che in fase di montaggio si erano miseramente ridotte a tre: che si fa?
Da più di un mese le strade di Frigento erano tappezzate da manifesti, su cui campeggiava il logo della fortunata trasmissione della televisione nazionale. In effetti non si trattava solo di un logo ripetuto all’infinito, anche un decennio dopo l’ultima puntata trasmessa, erano proprio i manifesti ad essere gli stessi; si ristampavano le medesime lastre da buoni quindici anni. La magagna era testimoniata dal viso e dai capelli del personaggio: il primo era stranamente privo di rughe per l’età, gli altri erano ancora al loro posto e tutti di un colore nero corvino. Da anni il grigio predominava sulla poca peluria superstite.
Piazza Municipio era gremita, gli archi delle luminarie con le infinite lampadine colorate erano accesi e rischiaravano la gente, che era stata spinta più dalla calura della serata estiva che dal cartellone degli spettacoli.
Quando il comico fece il suo ingresso dopo la nota finale di un liscio del gruppo spalla, il manipolo di sostenitori, amici e parenti, era già accampato sotto al palco.
L’ultimo scalino stava per provocare una caduta, esilarante come quelle presenti nelle comiche dei film muti. Gatta ci Cova riuscì a ristabilire un certo equilibrio, nonostante i cinque bicchieri ben riempiti di Martini Bianco. Li aveva bevuti al bar di mio padre, glieli avevo versati io in persona, contandoli di nascosto. Si era presentato nel pomeriggio, da solo, mentre nella vicina piazza i tecnici eseguivano il sound check. In quaranta minuti aveva raggiunto il bonus del quarto bicchiere, gliel’offrì il marito della masta di festa, entrato nel locale dopo aver visto al bancone il suo vecchio amico. Purtroppo, non poteva trattenersi: la frenesia del giorno dedicato al santo contagiava tutti i membri del comitato festa. Fece in tempo a pagare la consumazione e andò via, bisognava fare i conti delle offerte raccolte, altrimenti come avrebbero pagato lo spettacolo serale? I due condivisero una sonora risata e si salutarono.
Il comico parlava con sé stesso, a volte si dava pure le risposte, infine decise di prendere un po’ d’aria. Disse: – Me ne vado una mezzoretta alla Villa Comunale, me ne starò al fresco, mi troverò una panchina perché ho bisogno di starmene da solo.
Io stavo per rispondere, anche solo con un vago: Certo, è il posto giusto!, visto che sembrava proprio parlasse con me, poi mi resi conto ce l’avesse con la sua faccia riflessa nello specchio posto dietro le mie spalle. Avrei voluto chiedergli se conosceva la strada, ma mi ricordai che era di casa nel nostro paese e preferii tacere. Avevo quindici anni e la timidezza mi faceva uscire le parole dalla bocca almeno cinque secondi dopo averle pensate, quindi, nel frattempo, il potenziale interlocutore stava già camminando lungo via Roma.
Tornò dopo mezzora esatta. Ordinò il quinto Martini. Stava per sfuggirmi: Un altro? Mi ricordai di un paio di clienti; mi avevano insegnato che tali domande non vanno mai fatte, potrebbero mettere in cattiva luce un avventore agli occhi degli altri e soprattutto offenderlo, facendolo passare per un ubriacone.
Poggiò il gomito sul bancone d’acciaio inox e si rivolse a me, stavolta ne ero certo, dicendo: – Potresti dirmi che ore sono?
– Le diciannove – risposi di colpo, senza pensare ai secondi intercorsi tra il pensiero e le parole.
Un attimo dopo mi giunse una domanda sconcertante: – Sai per caso come finisce quella storiella del napoletano a New York davanti alle strisce pedonali?
– È il suo cavallo di battaglia?
– Sì, purtroppo non mi ricordo il finale.
– Capisco – dissi, come se fosse la cosa più naturale al mondo, quando poi quella storiella e quel finale avevano dato da mangiare al comico e alla sua famiglia per diversi anni.
Senza far trasparire neanche un minimo di compassione, gli raccontai per intero tutto il monologo. Seguiva, muovendo le labbra in silenzio, ogni singola parola. Giunti al momento topico del finale, serrò le labbra, stringendole con forza, e aprendo contemporaneamente gli occhi il più possibile con uno sforzo di attenzione. Mosse il capo in su e in giù, a confermare la bontà delle mie parole. Aveva aspettato che il locale fosse vuoto, nel senso di trovarsi solo con me. Cosa avrebbe potuto dire in giro un adolescente? Gli sembrava un rischio calcolato.
Ecco, recuperato il finale del suo spettacolo, aveva tre ore abbondanti per non dimenticarlo. Erano troppe. Chiese della carta e una penna. Scrisse avidamente ogni singola parola. Un paio di volte si interruppe, voltandosi verso di me e chiedendo come continuasse la frase. Io corsi in suo aiuto impettito e pieno d’orgoglio.
Non è che stessi dimostrando doti fuori dal comune, in fin dei conti era un tormentone, anche i bambini avrebbero saputo ripeterlo, soprattutto se presenti di ferragosto a Frigento, considerando le tante repliche vissute e i bis richiesti dal pubblico; la barzelletta era sapientemente posta al termine dell’ora a sua disposizione.
– Vuole un caffè? – mi permisi di chiedere. – Gliel’offro io, se lo gradisce.
– No, grazie, sto benissimo così – tagliò corto.
Avrei voluto aiutarlo in qualche modo, mi sembrava in difficoltà. Pensai di telefonare in canonica, dove era rinchiuso tutto il comitato, volevo raccontare alla masta di festa lo stato in cui si trovasse il suo amico comico. Non ebbi il coraggio. Intanto uscì barcollando. Avevo una ventina di minuti liberi per mangiare qualcosa, prima che iniziasse a riempirsi il bar a cavallo dell’inizio dello spettacolo. Decisi di seguirlo.
Prese il vicolo in discesa, svoltò in Via Duomo all’altezza della macelleria. Ogni tanto si fermava poggiando la mano sul muro delle abitazioni. Il traffico era già bloccato dalla polizia municipale che si era appostata in piazza San Marciano. Non passavano auto.
Il comico oscillante vide la Villa alla sua destra, vi entrò e si sedette su una panchina. Il vento cullava le fronde dei pini. Il tramonto chiedeva udienza oltre la recinzione e aveva ragione, era uno spettacolo da non perdere. Io fissavo lui, il quale scrutava qualcosa di immenso sparire creando una serie di colori magnifici, quasi irreali.
Mi venne in mente la sua carriera: quella serata avrebbe rappresentato il suo tramonto?
Le braccia, larghe sulla pietra della panchina, consentivano un respiro intenso e ritmato. Sembrava in uno stato di pace, quantomeno di tranquillità.
Raggiunsi velocemente il panificio e ritornai addentando un trancio di pizza, la mia cena. Era sempre lì. La Villa era vuota e mi sedetti in disparte.
D’un tratto prese dalla tasca dei pantaloni un foglietto e iniziò a leggere a voce alta. Si trattava della storiella del napoletano a New York davanti alle strisce pedonali, la riconobbi immediatamente.
Quando ebbe ultimato la lettura, ripose il foglietto in tasca e dopo pochi minuti la testa scivolò dolcemente di lato. Ebbi un fremito, pensando a un malore, ma fui subito smentito, infatti iniziò a ronfare.
L’orologio mi diceva che il tempo a mia disposizione era scaduto, dovevo ritornare in servizio. Pensai che il sonno poteva solo fargli bene, e poi mancava ancora tanto tempo al suo atteso ingresso sul palco.
Il lavoro si fece intenso. I clienti chiedevano gelati, come se si trovassero su una duna del deserto senza neanche una borraccia con dell’acqua.
La serata era caldissima e umida, una stranezza gradita. Mi dimenticai per un paio d’ore del protagonista del mio pomeriggio.
Alle ventitré esatte il bar si svuotò di colpo. Sentimmo il silenzio della musica e capimmo che era giunto il momento comico affidato a Gatta ci Cova.
Avevo tenute segrete le avventure di cui ero stato protagonista e mi sorse il dubbio che l’attore non fosse riuscito a tornare nei pressi del palco, dopo aver dormito almeno fino a che il flusso di gente non avesse preso la strada della piazza, avendo lasciato l’auto in parcheggi di fortuna: quella era la strada obbligata e lui si sarebbe svegliato per forza, anche perché di solito i giovani, a prescindere dal tipo di spettacolo proposto, si fermano nella Villa comunale per incontrarsi coi propri amici e passare così una serata diversa, magari mangiando un panino nella strada laterale.
Chiesi il permesso a mio padre di abbandonare momentaneamente il locale, visto che ormai non c’erano clienti, e mi lanciai verso la piazza. Mentre ultimavo i trenta metri che mi separavano dalla piazza, udii una sorta di boato. In pratica con quel verso tutto il pubblico aveva sostenuto Gatta ci Cova, sperando che non cadesse sulle tavole di legno del palco. C’era, sul palco, e aveva fatto il suo ingresso in modo approssimativo, senza far capire, se fosse stata una mossa in scaletta o un vero imprevisto.
La serie di gag iniziò con poca enfasi. Stentava a decollare la collaudata successione di monologhi, alcuni dei quali erano riedizioni, aggiornate e corrette, di pezzi fatti conoscere al grande pubblico dai migliori attori napoletani, da Totò a Peppino De Filippo, fino a Massimo Troisi.
Dopo alcuni minuti con passaggi a vuoto, sembrò aver preso un ritmo giusto, la gente iniziava a interloquire, anticipando battute, vere o presunte, qualcuno improvvisava a gran voce, altri ridevano di gusto.
Finalmente venne il momento dell’atteso finale. Iniziò a raccontare la storiella del napoletano a New York davanti alle strisce pedonali. C’era già chi rideva sotto al palco, di sicuro era qualche componente del gruppetto di supporto, amici e parenti, più tutto il Comitato festa.
In fondo alla piazza, sul marciapiede, dove avevo trovato mezzo metro quadrato di spazio, assistevo all’esibizione, ripetendo in silenzio ogni singola parola del pezzo. Stavolta ero io a muovere le labbra senza produrre suoni.
Giunti all’acme della performance artistica senza apparenti intoppi, Gatta ci Cova stava per incunearsi nel chiudere il monologo. La bravura consisteva nel dare il ritmo giusto alla frase finale, sintetica, secca. Il cerchio si sarebbe chiuso così. E sarebbe scoppiata una risata contagiosa e generale.
Socchiusi gli occhi per mettere a fuoco ciò che accadeva sul palco. Il comico, da dieci secondi buoni, rovistava con la mano sinistra nella tasca dei pantaloni, senza apparente soddisfazione. All’improvviso ebbi la certezza che stesse cercando il foglietto con il testo che stava recitando.
Iniziai a sudare, per paura che avesse avuto un blocco come nel pomeriggio; intanto si era fermato, bloccato in un silenzio innaturale, carico di aspettative. Il pubblico chiedeva la battuta conclusiva, l’attore rovistava in tasca e nella mente, per recuperare quanto atteso dal pubblico.
Mi sentii a disagio, come se fossi stato io quel poveretto sul palco, con addosso tanti occhi imploranti di piangere dalle risate.
Ancora oggi, se mi fermo a ricordare quei momenti, collego l’attesa nervosa a tante occasioni personali, che mi sono capitate successivamente: domande a cui dover cercare in fretta risposte adeguate. Era l’incubo ricorrente, quando affrontavo i miei esami all’università. Mi dicevo sempre: spero di non fare la fine di Gatta ci Cova.