di Ciccio Capozzi
“SOLE ALTO”. Tre storie con diversi personaggi, ma stessi attori, ambientate in un paesotto di campagna di fronte al lago, nei paraggi di Zagabria, in tempi diversi: 1991, agli albori della imminente guerra della ex-Jugoslavia (92-95); 2001, tra odi e rancori di una pace incerta; 2015, verso una ricostruzione immersa in ottundente oblio consumistico. Vi sono dei film, pochi se non pochissimi, per i quali vale l’attributo di “necessario”: ogni pellicola, al di là degli intenti e velleità dei suoi creatori, è soprattutto un’operazione industrial-commerciale. Poi i vari pubblici la “vedono”, e ne determinano l’eventuale successo commerciale: che è un dato. Ogni considerazione “altra”, è pericolosamente moralistica e troppo legata alla soggettività personale o collettiva concentrata sul presente, le mode, ecc. Non è detto che un film, ad esempio, oggi considerato “inutile”, in un tempo prossimo non sia un importante documento storico-sociale; o, addirittura, un capolavoro postumo. Penso al cinema di Totò; oppure ad alcuni titoli del cinema di cassetta di qualche anno fa. Perciò bisogna studiare e “interrogare” l’opera con cautela, più che trinciare giudizi sommari di gusto -cosa che lo spettatore fa per fatti suoi…-, c’è bisogno di approfondire e motivare. Al contrario, poi, vi sono titoli, come il presente, che si pongono in un’evidente ottica già di per sé diversa: il fatto che sia una coproduzione slovena, croata e serba (SLOV-CROA-SER, 15). Ovvero, escludendo la Slovenia che fu poco o nulla coinvolta nella sanguinosa guerra, sono le due regioni, oggi Stati autonomi e indipendenti, che più si sono combattuti con ferocia; e soprattutto la Croazia è stata, insieme alla Bosnia, teatro delle maggiori distruzioni di beni e soprattutto di vite umane. Una guerra civile spietata perché, soprattutto nelle campagne croate o bosniache, le tre entità etnico-religiose (cattolici di Croazia, musulmani di Bosnia e ortodossi di Serbia) convivevano nella stessa comunità, magari ignorandosi o poco sopportandosi, ma tutto sommato pacificamente. Tant’è che, specie tra i giovani scolarizzati, coppie miste, come è descritto nella prima parte del film, non erano rare. Ma la volontà della Serbia di S. Milosevic di affermare con la violenza nella regione il primato serbo, ha rotto questi pur precari equilibri: poi la serie delle ritorsioni e controritorsioni non ha avuto fine; e i confini tra i “buoni” e i “cattivi” sono diventati del tutto labili. Il regista e sceneggiatore del film è il croato Dalibor Matanic.Che ha operato una scelta narrativa particolare, ma che esprime un punto di vista estremamente interessante. Tranne la prima parte, in cui si vedono i serbo-ortodossi prendere l’iniziativa, egli non dà più giudizi di sorta, ma in quel caso, l’epilogo sanguinoso sconcerta anche quelli. Ma la strada del sangue è aperta: da lì solo distruzioni. E sono dati storici. Lo sguardo del regista è sempre sul lago, un panorama tranquillo e bucolico completamente in contrasto con gli avvenimenti. Egli osserva la Grande Storia da un piccolo tratto di territorio in cui sono ancor di più concentrati e intrecciati gli odi e le vendette incrociate, che reclamano altri sacrifici. E’ una maledetta spirale, per sottrarsi alla quale ci vuole molta forza d’animo e amore: solo così è possibile darsi un futuro. Il secondo episodio è incentrato sulla ricostruzione della casa: è una evidente metafora. Ma le macerie della guerra sono ancora accatastate, ingombranti e velenose, entro la memoria della ragazza, che esprime con quel rabbioso episodio di seduzione l’irrisolta situazione conflittuale, tra l’accettazione non passiva e il senso della ricostruzione. Questa divaricazione figurativa, molto alla J.M. Straub e D. Huillet, è portata dal regista con un senso cinematografico molto efficace, semplice, nella sua apparenza di disegno, ma molto articolata sui piani cromatici e di montaggio: sono spazi per lo più spogli e domestici, pieni di anime, di memorie e amori familiari; essi sono percorsi non come ambienti interni, ma come parti integranti della esistenza comune. Sono realistici e assolutamente validi nello stesso tempo, ma, soprattutto, di grande impatto emotivo. L’uso di limitati spazi, anche al di fuori della domesticità, come ci insegna il dantesco “l’aiuola che ci fa tanto feroci”, è una scelta perseguita con intento drammatico. Ma il regista e il suo direttore della fotografia, il giovane sloveno Marko Brdar, li hanno profondamente “interrogati”, ne hanno tratto tutte le variazioni possibili. Anche perché per il regista si tratta di una sentita e commossa rivisitazione in chiave autobiografica delle dimensioni della sua esistenza e ciò si nota nella delicata ma precisa concretezza e amorevolezza del tratto descrittivo. E per gli spettatori è perfettamente logico che così avvenga, perché le geografie che egli descrive sono interne alle combattute anime dei personaggi. Ed è su quei panorami interiori che si aprono e si sviluppano le vicende. E poi anche perché i conflitti si sono manifestati storicamente nella loro più esecrabile disumanità in quelle intrecciate e magari non popolose comunità: è da lì che bisogna cominciare a costruire la speranza. E ciò è più evidente nel terzo episodio: nel senso della sua negazione. I giovani, serbi o croati che siano, sono accomunati dal comune desiderio di anestetizzare il senso della memoria, attraverso il consumismo e le droghe. Il lavacro nel lago, che torna spesso come leit motiv figurativo nelle varie parti del film, qui diventa liberatorio rito collettivo: ma non ha quel valore di intimistica ripresa del sé, in cui ci si purifica e consapevolmente si rinasce. Però al protagonista serve per riprendere contatto con sé stesso, e ritornare da quella ragazza e suo figlio, che i genitori gli avevano imposto di abbandonare per andare a studiare in città. Anche qui si cela il debito metaforico: i giovani devono riprendere controllo del futuro; e costruirlo partendo da loro stessi, anche rompendo con i padri e l' accettazione passiva delle tradizioni, del passato. Il tratto saliente è che abbiamo questo livello riflessivo che marcia dentro le coordinate di una riuscita e affascinante narrazione filmica, premiata giustamente in una sezione collaterale del Festival di Cannes 16. Da segnalare gli attori: la protagonista, la croata Tihana Lazovic, è molto più che una promessa. Presente per gran parte del film ha una forte, sensuale ed emotivamente pregnante potenza scenica; cui si accompagna l’altro protagonista Goran Markovic, credibile e umano.