Nei giorni in cui cade l’anniversario del disastro di Marcinalle, uno dei peggiori incidenti in miniera (262 morti di cui 136 italiani), il dibattito pubblico viene invaso, riempito e saturato da un tema come quello delle migrazioni che sposta l’attenzione. C’è chi vorrebbe ricordare al proprio popolo di quando eravamo noi quelli brutti, sporchi, ghettizzati, che portavano le malattie, sfruttati e che rubavamo il lavoro. C’è chi invece erge quelle vittime sull'altare sacrificale di una migrazione Italiana educata, capace di stare al suo posto e rispettosa delle regole di chi ci ospitava.
Così quella tragedia non è più una strage che deve far riflettere sul lavoro, sul diritti dei lavoratori e sulla sicurezza ma diventa una questione da piegare ai soliti interessi di parte. Eppure se Marcinelle ci racconta qualcosa sta proprio nell’internazionalità di questa tragedia. Tra i 262 morti in quella miniera vi erano italiani, belgi, polacchi, greci, tedeschi, ungheresi, algerini, francesi, sovietici, britannici, olandesi. A nessuno servì la nazionalità per sopravvivere, a nessuno bastò il luogo di nascita per non essere sfruttato. In qualsiasi angolo del mondo un minatore è sempre un minatore.
Oggi quella tragedia dovrebbe farci riflettere non sulle migrazioni ma sul conflitto mai risolto tra salute e sicurezza, tra lavoro e rispetto per la vita umana. Dovremmo mettere insieme i punti della storia del movimento operaio per arrivare fino ad oggi e capire meglio il nostro tempo, per arrivare alla precarietà trasformata in mantra per lo sviluppo e la crescita e all’incapacità di rallentare i profitti anche in piena pandemia, anche quando ci si ammala, anche quando si muore.
Per ricordare Marcinelle, le vittime di allora, quelle di oggi e per ricordare a tutti noi che il lavoro unisce, supera le differenze anche quando sfrutta e uccide, le parole del discorso del minatore Danny nel film “Grazie signora Thatcher” aprono uno squarcio enorme e insanabile nelle nostre coscienze di oggi, in questo mondo che riparte senza cambiare, continuando a non vedere gli “esseri umani, gente perbene a cui non è rimasta neanche una dannatissima oncia di speranza”.
Ognuna delle persone ale mie spalle vi direbbe che questa coppa significa per me più di qualsiasi altra cosa al mondo ma sbaglierebbe. La verità è che io credevo contasse, credevo che la musica contasse, ma non contano niente, niente in confronto a quanto contano le persone. Che abbiamo vinto questa coppa è insignificante per l’opinione pubblica ma il fatto che ora noi la rifiutiamo, perché è questo che facciamo, diventa immediatamente una notizia, come potete ben vedere, così almeno non dovrò parlare solo con me stesso.
Perché nel corso degli ultimi dieci anni questo maledetto governo ha sistematicamente distrutto un’intera industria, la nostra industria e non solo la nostra industria, le nostre comunità, le nostre famiglie, le nostre vite, tutto nel nome del progresso e per pochi soldi pidocchiosi.
E voglio dirvi un’altra cosa che forse non sapete: 15 giorni fa la miniera di questa banda è stata chiusa, altre mille persone hanno perso il lavoro e non solo questo. Molti hanno preso la volontà di vincere già da un po’, qualcuno ha persino perso la volontà di lottare ma quando si arriva a perdere la volontà di vivere, di respirare…
Il punto è che se loro fossero foche o balene sareste tutti indignati ma loro non lo sono, no, non lo sono, purtroppo no. Loro sono solo comunissimi e normalissimi esseri umani, gente perbene a cui non è rimasta neanche una dannatissima oncia di speranza. Si sono capaci di suonare qualche bel motivetto ma a chi interessa dopotutto.
Ora porterò i miei ragazzi per la città a festeggiare.
Grazie.