Amadeo Bordiga è stato uno di quegli uomini che la storia l’hanno fatta, l’hanno mutata, ci sono entrati con forza e decisione e ne hanno cambiato per sempre la direzione. Eppure pochi lo ricordano, pochissimi sanno che fu lui a fondare il Partito Comunista d’Italia, pochissimi ricordano quest’uomo per quello che era davvero.
Il leone della tribuna lo chiamavano, perché con i suoi discorsi infiammava le folle e le persone non resistevano al suo carisma con il quale riuscì ad attrarre giovani come Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti con i quali sancì la scissione dal PSI e la nascita di quel partito che entrerà nella storia collettiva italiana.
Amadeo Bordiga viveva nella sua Napoli, in quel di corso Vittorio Emanuele, era l’animatore del Circolo Carl Marx nel centro storico, per quel circolo passarono le menti e le personalità che hanno fatto la storia della sinistra italiana ed europea, tutti pronti ad ascoltare quell’ingegnere delle ferrovie che sembrava capace di disegnare un sogno di una società giusta in maniera dettagliata e particolare.
Bordiga era rispettato da Lenin che più volte lo ospitò a Mosca, entrò in rotta con Stalin e con quella visione nazionalistica e prettamente russocentrica del leader sovietico e questo gli costò la marginalizzazione all’interno di quel partito che egli stesso aveva creato.
In Italia il suo nome, la sua figura e le sue idee furono accuratamente oscurate e buttate nel dimenticatoi da quel sistema tipico delle sinistra italiana di trattare chi vuole cancellare.
Bordiga rimane il vero padre del comunismo italiano, resta la sua forte impronta anche sul pensiero di Gramsci, con il quale, nonostante le polemiche ideologiche, tenne sempre un rapporto che molti definirono protettivo, paterno. Ad Ustica, nel 1926, durante il confino fascista, i due vissero a stretto contatto.
Con questo discorso che Amadeo Biordiga tenne al congresso del PSI nel 1921, a Livorno, si sancì quella scissione che diede vita al Partito Comunista d’Italia, in queste parole ci sono tutta la forza, tutta la capacità oratoria, tutto il coraggio e la visione politica di un uomo che purtroppo ci hanno costretto a dimenticare ma che merita di entrare nel pantheon dei grandi pensatori italiani.
Compagni! La frazione comunista, a nome della quale io parlo, ha già avuto occasione di esporre ampiamente quegli elementi di giudizio e quegli argomenti su cui si basa la sua attitudine: così nelle discussioni che il Congresso hanno preceduto, così nella relazione scritta che noi vi abbiamo distribuito, così nel discorso Terracini che ha delucidato le tesi fondamentali che con la nostra risoluzione vi proponiamo.
Il nostro punto di vista, compendiato prima in un manifesto programma, poi nella mozione adottata dal Convegno di Imola, è noto da tempo a tutto intero il Partito. Giunta a questo punto la discussione non è, compagni, mio compito riesaminare – né ciò sarebbe possibile – tutto quanto il problema. Io vorrei piuttosto ricordare da questa tribuna quale sia il valore ed il significato di questo Congresso nella politica internazionale del movimento operaio dal punto di vista di quel conflitto internazionale tra il comunismo e la tendenza di destra, che vive nel mondo proletario.
Voi dovete perciò consentirmi di premettere rapidamente alcuni fatti che dobbiamo aver presenti in una simile analisi e che risalgono a notevoli esperienze del passato, delle quali già in quei documenti che vi ricordavo, la nostra frazione ha avuto occasione di trattare ampiamente. Non è mio intento rappresentarvi qui una critica completa della degenerazione del movimento proletario e socialista nella Seconda Internazionale, ma è pure da questo punto che occorre prendere le mosse.
Nella sua grande maggioranza il movimento socialista negli ultimi decenni che precedettero il 1914, aveva assunto quel carattere a voi ben noto che lo aveva condotto a travisare ed abbandonare la fondamentale dottrina marxista e la prassi rivoluzionaria che da quella dottrina scaturiva. Non fu certo caso, capriccio, vanità di uomini quello che determinò un indirizzo simile, ma furono gli stessi caratteri dello svolgersi del capitalismo. Noi avevamo la sinistra marxista, sempre difesa, anche nel seno della vecchia Internazionale; noi possedevamo fino dall’opera critica fondamentale di Marx e di Engels tutto quel bagaglio di dottrina che ci conduceva a prevedere la fine del inondo capitalistico in quella concezione dello sviluppo rivoluzionario che nel Manifesto dei comunisti è meravigliosamente compendiato. Ma questa previsione del modo con cui la società capitalista sarebbe scomparsa dalla storia dell’umanità, questa previsione tracciata storicamente, politicamente nel Manifesto dei comunisti, analizzata nei suoi dettagli nel Capitale, non era certamente uno schema freddo e semplice che senz’altro poteva realizzarsi e senz’altro avere la sua esplicazione.
Sì, il capitalismo, attraverso all’analisi che noi marxisti ne facevamo, appariva destinato a soccombere; lo sviluppo di certe sue intime contraddizioni appariva destinato a rimanere incapace di rappresentare più oltre un certo punto, il sistema possibile di produzione di cui l’umanità poteva avvalersi. Ma nello stesso tempo il capitalismo e la società borghese elaboravano nel proprio seno degli elementi di conservazione, degli elementi di equilibrio alle condizioni della loro crisi, delle anti-tossine che ogni organismo elabora per combattere le tossine che ne minano l’esistenza.
Ora, il movimento proletario nella Seconda Internazionale andava a poco a poco verso questa fisionomia, anzi che essere il coefficiente decisivo del rovesciamento del capitalismo. Nella lotta suprema fra la forza produttiva che avrebbe dovuto ribellarsi all’ingranaggio dei rapporti fra produttori e borghesi, e la classe padronale, attraverso il complicarsi della fase capitalistica della evoluzione del mondo borghese, si era fatto diventare il movimento proletario un coefficiente di equilibrio e di conservazione del regime borghese. In quanto che, abbandonandosi da un lato – e i due fatti sono insopprimibili nel campo dottrinario la critica fondamentale delle ideologie democratico-borghesi e piccolo-borghesi, che è il punto di partenza del marxismo, dall’altra parte non si veniva più a creare l’antitesi fra il proletariato gerente di nuove ideologie, di nuove forze, di nuovi sistemi, di nuovi istituti, e tutto il meccanismo democratico proprio del sistema capitalistico: al posto di questa fondamentale antitesi rivoluzionaria veniva a sostituirsi una contraddicenza, un comparteggiamento fra il principio ideologico e il sistema rappresentativo della democrazia borghese, e la funzione del movimento proletario, inteso non ancora come lo slancio supremo e autoritario della classe verso il suo destino, ma come i piccoli tentativi di gruppi, di gruppetti e di categorie di impossessarsi di limitati interessi.
Perché il grande interesse di classe proletaria non può, non deve, non riuscirà mai a realizzarsi nei quadri del meccanismo politico presente. Se i supremi destini di tutta la classe proletaria non possono raggiungersi se non spazzando via le istituzioni politiche su cui il capitalismo basa il suo potere, esiste però una possibilità di conciliazione degli interessi immediati, contingenti, del gruppo o della categoria, con quelle soddisfazioni che si possono, sia pure illusoriamente, perseguire avvalendosi del meccanismo democratico, avvalendosi del diritto elettorale, avvalendosi di quel tanto di diritto che la società borghese deve riconoscere alle masse proletarie nella sua costituzione.
In questa seconda funzione che il socialismo aveva assunto, o compagni, nella Seconda Internazionale, esso era divenuto un movimento sindacale cooperativo di gruppi operai, per interessi immediati, su cui si allacciava perfettamente un movimento puramente elettoralistico, puramente socialdemocratico di conquista dei mandati elettivi nell’organismo rappresentativo borghese, allo scopo di portare innanzi la borghesia a lato di una classe destinata a combatterla e ad abbatterla.
Questo movimento, questo fenomeno storico, limitando l’ascendere rapidissimo del profitto capitalistico, servendo da fattore di equilibrio all’avidità di guadagno della classe borghese, compensava quel processo fatale di accentramento dei capitali, di accrescimento della miseria, di esasperazione dei rapporti capitalistici, compensava senza poterlo eliminare definitivamente, compensava questo processo e faceva sì che la società borghese potesse trovare equilibrio in quella sua intima contraddizione, propria delle funzioni del movimento proletario, propria delle funzioni della più gran parte del movimento socialista della Seconda Internazionale che aveva relegato le vecchie formule rivoluzionarie al posto di un freddo quadro su cui si lanciava qualche volta uno sguardo, e che si chiamava il programma massimo, ma che viceversa dedicava tutta la sua attività, tutta la sua prassi in quella relazione che aveva scritto per il suo programma minimo e che non rappresentava altro che dei gradini che il proletariato avrebbe dovuto percorrere a gradi. Orbene, questo movimento revisionista era caratterizzato da una dottrina e da una teoria che la storia ha dimostrato fallace. La concezione marxista pessimistica, catastrofica, rivoluzionaria, che diceva non essere possibile uscire pacificamente dal meccanismo dell’attuale società e che non era possibile evitare che la contraddizione del capitalismo conducesse ad una suprema battaglia rivoluzionaria fra le classi, questa previsione storica era sostituita dall’altra previsione; che invece il mondo capitalista si sarebbe gradualmente, lentamente, ma sicuramente modificato, accettando queste iniezioni di socialismo che si andavano facendo nelle diverse sue strutture fino a diventare, senza bisogno di questo urto supremo, senza bisogno di questo conflitto, di questa catastrofe, a diventare a poco a poco, a trasformarsi nella società socialista, nella società basata sulla socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio.
Orbene, io non insisterò molto nel dimostrarvi come la guerra sia la dimostrazione della fallacia di questa dottrina. Non devo fare una conferenza di propaganda, né posso attardarmi a dimostrare come appunto la guerra, crisi suprema, ultima fase dell’imperialismo capitalistico, non faccia altro che riconfermare quella caratteristica che la dottrina di Marx aveva segnato alla crisi finale del regime borghese. Quindi, dinanzi alla guerra, il movimento si vide togliere dalla storia la possibilità di realizzare il suo programma. Quale fu il suo compito, quale fu il suo rôle in una situazione di questo genere? E qui interviene anche a spiegarci questa situazione, che poi – come vedremo si ripete nell’episodio del dopo guerra: interviene a spiegarci che la nostra dottrina, il nostro metodo critico, non è la volontà di uomini; che non è la coscienza o il pensiero che dirigono la storia, ma sono forze più complesse e più profonde. Di modo che non era possibile attendere che quei revisionasti che avevano escluso la possibilità di un attacco rivoluzionario fra proletariato e borghesia, che avevano accarezzato l’illusione della rivoluzione pacifica e graduale del mondo capitalistico, che non solo doveva escludere la guerra di classe, ma escludere la stessa guerra fra Stato e Stato capitalistico; non era possibile dinanzi al fenomeno così grandioso, al suo esplodere, nonostante l’ammonimento venuto dall’ultimo Congresso della Seconda Internazionale, non era possibile che tutti costoro dicessero: “Abbiamo errato; le nostre teorie erano sbagliate e quindi siamo pronti a ritornare sui nostri passi”. Ed è là che bisogna ritornare: all’antica via del metodo rivoluzionario, e bisogna quindi rifiutare di seguire la borghesia nella guerra, e bisogna piuttosto accettar quelle armi che essa porge ai proletari per adoperarle nell’urto rivoluzionario.
Questo non era possibile ed ecco anche perché quando parliamo del fenomeno che sono qui a trattarvi, seppure lo vogliamo dire – in mancanza di termine migliore che forse si troverà in qualunque lingua – fenomeno di opportunismo, non intendiamo fare una definizione di ordine etico e individuale: intendiamo parlare di un fenomeno superiore ad ogni volontà di coloro che erano alla testa del movimento proletario alla vigilia della guerra. Il campo sindacale da una parte, il campo parlamentare dall’altra erano i guidatori del meccanismo congegnato per raggiungere quell’effetto, per dare al proletariato quelle piccole soddisfazioni e quei piccoli miglioramenti e per arrivare a questo risultato avevano inevitabilmente dovuto poggiare la loro macchina in tale modo da essere in continuo contatto, con continua discussione, in continua transazione con la borghesia, in accordi continui nel campo sindacale che tendevano sempre più a incanalarsi nella via della collaborazione politica, del possibilismo, di accordo nell’amministrazione stessa della pubblica cosa e nell’intervento stesso dei rappresentanti del proletariato nel meccanismo del potere governamentale borghese. Ecco perché non fu possibile nel 1914 arrestare questa macchina che pure il proletariato alimentava coi suoi sforzi, con la sua cassa, coi suoi sacrifici, con la sua azione, e qualche volta anche col suo sangue, perché anche allora eranvi episodi violenti della lotta di classe. Essa seguitò a girare ed i suoi dirigenti seguitavano a farle seguire lo stesso metodo non potendo alterarne il cammino fatale.
Ma questo meccanismo se veniva a perdere il suo obiettivo finale e la sua concezione teorica, non poteva perdere la sua prassi e la sua struttura meccanica, e poiché esso serviva all’equilibrio della borghesia, il fine, cioè la collaborazione, mancò perché la possibilità del riformismo mancava. Ma il fatto della collaborazione, superiore alla volontà di ognuno, restò, e quindi il Partito socialista e le organizzazioni proletarie delle più grandi parti del mondo divennero i migliori strumenti che il capitalismo avesse potuto immaginare e desiderare per condurre le folle proletarie, senza resistere, al sacrificio della guerra nazionale. (Applausi).
Tutto ciò ho voluto ricordare solamente per stabilire i caratteri di questo fenomeno che ho domandato di chiamare “opportunismo”. Esso non poteva prefiggersi una finalità che non è nella sua storia, e non poteva fare altro che insistere nella vecchia prassi, nel vecchio metodo e diventare un elemento di difesa della classe borghese contro la classe proletaria.
Senza seguire questa analisi in tutti i suoi dettagli, noi ritroviamo il fenomeno dinanzi alla situazione del dopo guerra. Graziadei e Terracini vi hanno detto quale è la interpretazione comunista della situazione del dopo guerra. Quale è la tesi fondamentale della Terza Internazionale? La tesi fondamentale è questa: la situazione ereditata dalla guerra degli Stati borghesi deve essere volta alla guerra rivoluzionaria fra le classi in tutto quanto il mondo. E, compagni, all’indomani della guerra anche i residui del vecchio errore determinarono una situazione analoga. Noi vediamo dinanzi a questa situazione, mentre i comunisti marxisti affermano che bisogna indirizzare il moto proletario a questo programma massimo che finalmente si riavvicina alla prospettiva della storia, che finalmente è tangibile, che finalmente in alcuni paesi è realizzato, e cioè il risultato supremo ed unico della conquista del potere politico, punto di partenza della rivoluzione proletaria, mentre a sinistra il marxismo comunista afferma col pensiero e con l’azione questa verità, il vecchio errore ed il vecchio metodo esistono ancora in tutto il mondo, in tutti i paesi ed affermano ancora che, malgrado la terribile catastrofe della guerra, malgrado che essa abbia per sempre condannato e disonorato il meccanismo socialdemocratico capitalistico, tuttavia siamo ancora, come allora, dinnanzi a un periodo di graduale evoluzione, di successive conquiste, di parziali risultati, e negano questa tattica che, ritornando finalmente alla concezione originaria del marxismo rivoluzionario, dice al proletario di lottare soltanto per la conquista del potere, e che solo servendosene per spezzare l’apparato statale borghese, la sua polizia ed il suo esercito, i suoi Parlamenti potrà foggiare il nuovo apparato statale, l’apparato dei Consigli proletari. Così solo si può costituire un istrumento il quale serva ad intervenire nei rapporti tra produzione e capitalismo ed a trasformarli nel senso di sopprimere lo sfruttamento dei lavoratori ed il dislivello delle classi.
Dinanzi a questa tesi ancora appare equivoca l’insidia revisionista.
Ebbene, o compagni, il fenomeno si ripete. Questo fenomeno si è ripetuto in Russia, in modo evidente, dinanzi ad una situazione rivoluzionaria determinatasi in quel paese prima che altrove, e se fosse luogo a discutere dettagliatamente di questo si dovrebbero rievocare molte cose della storia che ha attraversato il proletariato d’Occidente! (Applausi).
Dunque, compagni, quando si determina il problema “come deve il proletariato liquidare l’eredità della guerra”- il revisioniamo, con maggior ragione che altrove, effettivamente poteva sostenersi in Russia perché era l’unico paese ove la forma democratica della rivoluzione poteva essere affermata dal punto di vista socialista, poteva sostenersi anche in presenza della necessità di lasciare funzionare per qualche tempo una costituzione politica di ordine parlamentare e democratico. Ma anche lì, nel paese dove meno avrebbe dovuto avvenire e dove è avvenuta, contro le condizioni locali, per effetto di una condizione universale, l’eredità storica della situazione di guerra ha fatto sì che quando il proletariato russo si è trovato di fronte al problema della massima realizzazione della conquista del potere, dell’abbattimento di quegli istituti democratici che erano appena nati; anche lì il movimento proletario si è diviso, anche li sono stati i seguaci delle dottrine socialdemocratiche e riformaste, i capi politici del proletariato, i quali hanno detto: “No, non è questa la prospettiva, non questo l’avvenire. Non può il proletariato russo arrivare a questo. No. Anche senza negare che si debba giungere in Russia alla dittatura del proletariato, perché questo problema lo ha meglio elaborato il movimento socialista russo che quello degli altri paesi”. E dimostrarono prima, nelle conferenze internazionali durante la guerra, a Zimmerwald ed a Kienthal, ove convennero molti socialisti contrari alla guerra per diverse ragioni. Ma, come dicevo, fu la sinistra della Russia bolscevica che pose con più grande chiarezza la tesi: non bastava deprecare la guerra come si potevano deprecare una volta le nequizie del capitalismo, ma bisognava dichiarare che la parola d’ordine da lanciare alle masse era questa: dalla guerra nazionale degli Stati alla guerra civile del proletariato. (Applausi).
In Russia, dunque, compagni, avvenne perfettamente, con assoluta analogia, lo stesso fenomeno di questo movimento riformista, menscevico, socialdemocratico, dinanzi al momento supremo in cui ormai il proletariato, poggiandosi sul nuovo istituto, impadronendosi delle armi che l’esercito e la marina avevano nelle loro mani, ingaggiava la battaglia suprema per la conquista del potere. In quel momento il menscevismo non disse: “Le mie teorie falliscono, quello che credevo impossibile nella Russia di oggi è invece realtà imminente di domani perché già il proletariato è in piedi, infiammato da questa parola d’ordine della conquista del potere”. Esso non disse questo perché queste conversioni non sono possibili, perché aveva nelle sue mani una struttura, un meccanismo che doveva seguitare a girare come aveva girato fino allora, funzionando a fianco di Kerensky e Martov, seguitando ad esplicare la sua prassi di collaborazione borghese. E quando Lenin si levò di fronte a Kerensky, i menscevichi non scelsero, ma andarono con Kerensky e andarono con la causa della borghesia contro la causa della rivoluzione. (Applausi).
Io voglio sorpassare le analoghe constatazioni che si possono fare ove si tratti delle altre rivoluzioni comuniste non trionfate, come la rivoluzione russa, ma fallite. Voglio appena accennare che queste esperienze di ordine storico vengono confermate soprattutto da quelle rivoluzioni che si sono arrestate alla fase socialdemocratica capeggiata dai riformisti. In quanto anche essi sono per la presa del potere, ma essi vogliono andare senza il preventivo attacco violento alle istituzioni attuali e quindi senza nessuna forza che permetta loro come primo atto la sostituzione del proletariato alla borghesia, di prendere questo meccanismo giuridico, militare, poliziottesco e spazzarlo e buttarlo via in rottami come quello di un ordigno che nella storia abbia fatto il suo tempo, per lasciare il posto all’irrompere di altro istituto.
Essi questo non vogliono credere possibile. Essi non credono che il proletariato possa gestire il potere solo dopo aver spezzato la macchina gestita dai suoi oppressori: essi credono che esso possa usufruire degli stessi ordigni che oggi il proletariato si trova dinanzi quando attacca i privilegi della minoranza borghese.
Dicevo che abbiamo avuto dei governi socialdemocratici. Badate, non solo in collaborazione coi partiti borghesi, ma anche dei governi fondati su parlamenti socialisti alla unanimità meno uno o meno due, come nell’Ucraina e nella Georgia, e come in altri paesi in modo meno evidente. Si è visto così nella maniera più grande il fallimento della socialdemocrazia, perché non solo questi paesi non hanno realizzato ciò che, fra mille ostacoli, la dittatura del proletariato ha realizzato in Russia, nella costituzione economica su pure basi marxiste, contro qualunque menzogna borghese; non solo non hanno realizzato nemmeno quella loro tesi storica che Terracini ha ben spiegato; ma non hanno neppure potuto confermare la loro dichiarazione che può il proletariato andare al potere per le vie democratiche evitando la dittatura e la violenza, evitando la violenza di libertà e di diritto di pensiero e di agitazione perché i loro governi hanno avuto bisogno di dittatura, di violenza, di soppressione dell’altrui libertà. Ma come si è verificato questo? Mentre nella dittatura dei Soviet russi chi giace sotto la dittatura stessa, chi subisce anche gli orrori del terrore rosso ed è calcolato nemico della causa del proletariato, è la classe degli sfruttatori, privata dei suoi antichi diritti e privilegi, che cerca insidiare le conquiste della rivoluzione; in questi paesi, invece, si esercita la dittatura, si esercita la violenza, si applica il terrore, contro i proletari, contro i comunisti. (Applausi).
Ecco dunque, compagni, le due alternative che la storia mondiale oggi presenta: dittatura borghese o dittatura proletaria. Ma qui viene la funzione della scuola intermedia che dice “avanti” ai proletari, ma senza dittatura e senza violenza. La sua funzione è segnata nella storia al di là della volontà e della sua coscienza, e cioè di essere l’ultima gerente della dittatura borghese contro la rivoluzione proletaria. Quindi, compagni, abbiamo cercato più che ricordare i casi in antitesi, di stabilire quali siano i sintomi preventivi di questo pericolo il quale è nelle file, anche oggi, del movimento proletario. Abbiamo cercato di vedere il carattere di questo movimento perché oggi che su tutto il mondo, per effetto del valore socialista prodotto dalla guerra e dalla rivoluzione russa, per iniziativa e legittimo onore dei compagni del grande Partito marxista e rivoluzionario di Russia, oggi che si ricostituisce un nuovo ordigno di lotta e di riscossa del proletariato, bisogna ricostruirlo con criteri antitetici e opposti; bisogna evitare che esso possa ancora correre il rischio di diventare un meccanismo di conservazione e di equilibrio capitalistico anziché diventare arma ben temprata che nel pugno del gigante proletario servirà a sorpassare le ultime resistenze del mondo attuale.
E quindi, compagni, ecco il problema dinanzi a cui l’Internazionale comunista s’è trovata in quanto che nel disgregarsi dei vecchi partiti della Seconda Internazionale, nella impossibilità per essi di riprendere il loro compito di prima della guerra perché troppo clamorosamente erano stati disonorati dinanzi alla grande massa proletaria, ecco che si verifica il fatto che taluni di questi partiti cercano di entrare nella Terza Internazionale e verso il principio dell’anno scorso in parecchi congressi alcuni partiti sostanzialmente socialdemocratici abbandonano la Seconda Internazionale riservandosi di entrare nella terza. E allora, o compagni, dinanzi a questo principale problema, il comitato esecutivo della Internazionale comunista convocò il Congresso di Mosca. Si trattava di identificare questo pericolo, di vedere quali sono i suoi caratteri, di assodare quali sono le norme con cui si possa guardarsene, di fare la diagnosi e trovare la cura di questa malattia opportunista che minaccia di incancrenire il pericoloso movimento proletario, che minaccia di penetrare nelle stesse file della nuova Internazionale che si costituisce. E allora, attraverso il materiale di critica che il pensiero comunista marxista ha opposto non da oggi, ma da prima della guerra, dalle note polemiche di allora fra la sinistra rivoluzionaria e la destra riformista, da tutto questo materiale si trassero le prime basi per l’identificazione del pericolo riformista.
E poiché credo che questo Congresso darà qualche cosa ancora per l’esperienza internazionale di questa lotta, voglio ricordare quali sono i caratteristici argomenti che gli opportunisti invocano, allo scopo di vedere dove essi siano in Italia, se essi siano ancora in Italia, come bisogna liberare il movimento e quale monito venga dal risultato di questo Congresso, e, in questo senso, quale sarà la conseguenza, in tutto quanto il movimento comunista del proletariato internazionale.
Vi dicevo che il movimento revisionista era caratterizzato da quelle pratiche su cui non occorre insistere, tutte corporative nella economia, tutte elettorali nella politica; ma esso era caratterizzato anche da certe sue tesi favorite. In fondo essa si riferiva alla ideologia, alla dottrina, alla teoria, con un argomento di molto facile applicazione demagogica e che molte volte ha strappato l’applauso ai proletari sinceramente rivoluzionari, anche quando l’ascoltare le indicazioni della dottrina avrebbe servito ad essi per premunirsi contro l’insidia che si annidava invece nel facile motivo oratorio. Ma noi volgiamo fare azione; non vogliamo fare teoria. Ora il movimento revisionista aveva sostanzialmente acquistato il suo posto nel pensiero marxistico dei rivoluzionari demolitori, aveva acquistato tutte le forme della ideologia borghese e piccolo-borghese e cioè, mercé certi suoi specifici argomenti, delle strane contraddizioni fra le sue tesi di oggi e di ieri, tale elasticità e disinvoltura con la quale evolveva attraverso le situazioni terminando sempre senza saperlo con elaborare le risposte meno rivoluzionarie.
Un argomento caratteristico? Io ne ricorderò alcuni anche perché non voglio tediarvi. Il modo di considerare da parte del riformismo il problema della rivoluzione. Allorquando alla vigilia della guerra, il problema non era all’ordine del giorno della storia, non stava dinanzi a noi, quando anche allora abbiamo parlato di programma rivoluzionario e di tendenza rivoluzionaria si era perché noi dicevamo: Sì, non è possibile fare la rivoluzione oggi, non esistono tutte le condizioni di forza proletaria che possano permettere questo supremo urto, ma bisogna tuttavia fare la propaganda in mezzo al proletariato della necessità di questa evoluzione, bisogna dire che in ogni episodio, in ogni lotta egli non risolve nulla, ma acquista un’esperienza di più, che questo attuale meccanismo sociale non offre uno spiraglio di luce per il suo avvenire se non si spezza e si disperde per fissare lo sguardo nel cielo aperto. Questa questione fu invece sempre girata dal riformismo ed è una vecchia polemica dei nostri congressi. Fu girata col dire che dal momento che la rivoluzione non è possibile, perché distruggere? “Noi, essi dicono, siamo dei realizzatori, siamo dei pratici, vogliamo dire alle masse ciò che possono fare oggi, non quello che potrebbero fare domani”. E con questo sofisma del valutare le condizioni contingenti si combatteva la nostra tesi intransigente. Perché si diceva: Come fate a dire che non si debbano fare blocchi elettorali, che non si deve fare collaborazione di classe? Oggi non bisogna farli, ma domani la situazione cambierà; sarà un’altra, chi sa quale potrà essere. E di ciò il riformismo non aveva la sua visione storica: aveva dovuto abbandonare quella antica visione schematica, ma potentemente rivoluzionaria in questo suo programma che il marxismo aveva tracciato. Esso aveva messo sulla sua bandiera la famosa formula di Bernstein: “Il fine è nulla, il movimento è tutto”. E’ la prassi quotidiana che comporta la conquista di qualche cosa nel campo economico, di fare scioperi ed elezioni. Tutto ciò è fine a sé stesso e non occorre avere mete. Il proletariato non sa che farsene. Ed è curiosissimo, compagni, come su un altro problema si equivochi fondamentalmente, quando cioè si chiama noi volontaristi. Ma volontaristi siete stati voi che avete accusato di eccessivo determiniamo, che degenerava nel fatalismo, quella affermazione che l’azione di allora non era nulla e tutto doveva riporsi nel fine lontano che doveva condurci alla aspettativa negativa del massimalismo storico, mentre voi conducevate il proletariato ad una trasformazione meno profonda della trasformazione effettiva dei rapporti nella società esistente.
Se vi furono due revisioni volontaristiche del determiniamo marxista che davano per il riformismo la interesistenza della legge storica e della volontà umana, queste due revisioni furono tutte e due contro di noi. Così la revisione dei riformisti come quella dei sindacalisti. Mentre invece la sinistra marxista diceva già allora che bisognava abituare il proletariato a guardare lontano perché la situazione storica non gli dava la possibilità di agire. E l’ostacolo maggiore alla attuazione della rivoluzione proletaria, non è dato dalla volontà di azione del proletariato, ma dallo stesso bagaglio delle sue dottrine, dallo stesso metodo critico; mentre invece noi diciamo che oggi, in questo dopoguerra, la volontà del proletariato coincide con l’atto supremo con cui esso deve superare la struttura del mondo capitalistico. (Applausi).
Non vi sarebbero queste condizioni rivoluzionarie? Interessanti anche qui gli argomenti del revisioniamo. Interessantissimi. Non ci sono perché l’economia capitalistica è misera. Voi però nel vostro formulario marxista non potete avere dimenticato una asserzione: che cioè allorché una società nuova nasce, ‘significa che tutte le sue condizioni sono maturate nel senso della società antica, che il proletariato potrà iniziare l’atto rivoluzionario che conduce al comunismo quando sarà completa la evoluzione della forma economica e storica del mondo borghese. Ebbene: è strano, ma per il riformismo si era lontani da questa situazione nel 1914 perché l’economia capitalistica era troppo florida, troppo civile, lasciava perdere qualche briciola del suo banchetto sulle folle proletarie, e adesso che esistono le condizioni inverse, che il meccanismo capitalista non va più e cagiona la carestia, la miseria e la sofferenza del proletariato di tutto il mondo, oggi si dice che la macchina è troppo sconquassata perché se ne possa prendere possesso. (Approvazioni). Senza una dottrina, senza una idea, ma con questo metodo quotidiano di affrontare la situazione contingente, quest’arte diligente offriva sempre la sua contraddizione al proletariato con risposte che meglio dovevano allontanare ogni volontà ed ogni energia rivoluzionaria. (Applausi).
Anche nell’internazionalismo le varie nazioni hanno capovolto le tesi. Vi ricordate quando durante la guerra noi ci opponevamo alla formula “Né aderire né sabotare la guerra”, ed eravamo invece, sia pure in teoria soltanto, per la stessa formula bolscevica di sabotare la guerra borghese? Quando certi moti del proletariato nel 191’7 e nel 1918 facevano intravedere la possibilità di risolverla in un’azione contro lo Stato borghese, voi la ricordate l’obiezione dei nostri destri? Rivoluzione sì, ma in tutti i paesi nello stesso momento perché altrimenti si fa la causa di una borghesia contro quella di altre borghesie. Oggi invece che la rivoluzione è cominciata e da tre anni il proletariato russo è in piedi e da solo difende le sue sorti, oggi che la rivoluzione è minacciata, noi dobbiamo attendere perché là vi sono state le condizioni, qui le condizioni non sono ancora mature. (Applausi).
E vengo all’argomento principe, appunto questo: la differenza di ambiente. Nessuno di noi contesta che la rivoluzione possa essere atto dello stesso istante in tutti i paesi. Ma veniamo alla questione delle differenze nazionali che Marx ha affermato e che nella Terza Internazionale noi, suoi gregari modestissimi, non ci sognammo di negare. Il Secondo Congresso della Terza Internazionale sapeva molto bene della esistenza di questo problema della differenza ambientale, ma non da questo ha concluso nell’assoluta autonomia dei partiti nazionali. Ha ammesso una certa autonomia. Voi avete citato anche questo. E’ vero. Ma vediamo in quale modo le risoluzioni del II Congresso di Mosca si applicano a questo problema della direzione di insieme dell’azione internazionale proletaria e della differenza di esigenze che l’azione può presentare in un paese anziché in un altro.
Due ordini di tesi ci ha dato il Congresso di Mosca; tesi sulle condizioni di ammissione che devono appunto garantire che non entri nella Terza Internazionale alcun partito opportunistico non comunista, e tesi sui compiti principali della Internazionale comunista. E in queste seconde tesi – e ne esiste una serie per ciascun paese – sono vagliate le differenti condizioni dei diversi paesi. E’ nelle prime tesi che, non i russi, ma tutti i comunisti di tutti i paesi, hanno voluto scrivere, hanno scritto, in modo forse non perfettissimo – secondo me non perfetto perché avrebbero dovuto essere ancora più aspri – quanto vi era di internazionale nel processo di organizzazione nel nuovo movimento, quanto deve dovunque servire a differenziare le forze che vengono sulla piattaforma del comunismo marxista da quelle invece che restano più o meno velate nella cerchia dell’antico terreno socialdemocratico e della Seconda Internazionale.
Ed allora noi affermiamo che il supremo consesso internazionale ha non solo il diritto di stabilire queste formule che vigono e devono vigere senza eccezione per tutti i paesi, ma ha anche il diritto d’occuparsi della situazione di un solo paese e potere dire quindi che l’Internazionale pensa che – ad esempio – in Inghilterra si debba fare, agire in quel dato modo. Così stabilito, quindi, non è esatto dire che le speciali situazioni dei diversi paesi non siano state considerate. Nessuno di noi ha mai affermato che la stessa precisa tattica debba applicarsi a tutti quanti i paesi: vi è una parte di condizioni – e badate che non sono condizioni tattiche, sono condizioni di organizzazione: le condizioni che servono a dirigere tanto l’azione dei Partiti quanto a raccogliere in ogni paese, dove sono dei comunisti, degli aggruppamenti di questa tendenza storicamente marxista per essere compresi nel seno della Terza Internazionale, in armonia colle sue dottrine, coi suoi metodi e colle sue finalità: Ma, come dicevo, il Congresso ha anche esaminato le differenti condizioni in cui si trovano i vari paesi e come per l’Inghilterra ha riconosciuto il bisogno di adattare le tesi, pur rimanendo nei deliberati del II Congresso della Terza Internazionale, così per l’Italia ha fatto qualcosa partitamente. La 17a tesi sulle condizioni di ammissione, mentre non ha escluso che vengano anche in Italia, come dovunque, applicate integralmente le 21 condizioni – in quanto che voi non troverete in nessuna tesi speciale e nazionale qualche cosa che contraddica le 21 condizioni perché se questa contraddizione si fosse constatata allora quella tesi si doveva cancellare, perché non era al suo posto – consente l’applicazione di esse secondo le esigenze di questo o quel partito, senza però togliere quelle condizioni indispensabili per tutti i Partiti. Ecco dunque il meccanismo logico col quale il II Congresso ha deliberato, ecco le basi su cui è fondata l’organizzazione internazionale cui non possiamo sottrarci ed ecco come il problema delle differenti condizioni e della autonomia si pone dal punto di vista della organizzazione e della tattica comunista.
Ma vi è anche un altro interessante argomento, che ha una caratteristica sentimentale, col quale si contrasta l’accettazione di queste 21 condizioni. Si è dovunque formata una corrente che dice: Accettiamo; però nel paese nostro non possiamo applicarle perché vi sono condizioni speciali. Ciò è stato affermato in Italia, in Francia, in Svizzera, in Germania, in Inghilterra. Se si accettasse questo principio le 21 condizioni non sarebbero applicate in nessun paese del mondo. (Applausi dei comunisti).
Si dice ancora: le 21 condizioni corrispondono alle condizioni della Russia. Non è vero. Fanno tesoro dell’esperienza russa e non credo che vi sia qui qualcuno così cieco da voler negare il valore della esperienza russa nel giudizio internazionale della lotta proletaria, salvo ad accettarlo o non accettarlo. Ma le 21 condizioni non servono per la Russia. La Russia è l’unico paese cui non servono perché là il pericolo dell’opportunismo è superato.
Se voi leggete una qualunque delle 21 condizioni vi accorgete subito che quasi tutte non si possono applicare al Partito comunista russo. Dove si dice, per esempio, che si deve fare l’azione illegale non è che si dica per la Russia, perché là esiste la legalità proletaria e sovietista e l’azione illegale non si deve più fare. Dove si dice che si devono combattere i bund riformisti, sindacali, non è per la Russia che lo si dice. Dove si dice che si deve andare nei parlamenti anche se saremo costretti ad andarci con la corda al collo, non è per la Russia che lo si dice, perché là parlamenti non ce ne sono più, come io auguro che sia anche qui prima delle prossime elezioni.
Voi vedete dunque che le 21 condizioni non corrispondono alle particolari circostanze russe.
Ma c’è un altro argomento, anch’esso alquanto sintomatico. Vi sono i disfattisti della rivoluzione russa, coloro che hanno combattuto contro le falangi rosse del proletariato russo nelle file degli eserciti della reazione, coloro che hanno per lo meno esercitato la loro complicità con tutti gli atti di jugulamento della Repubblica proletaria, i Martov, i Cernov e simile mirabile genía che girano per i congressi dei partiti proletari di tutto il mondo e vanno a dire che l’internazionale comunista vuole applicarvi per forza quei metodi che sono stati applicati in Russia. Ma dove è detto questo? E per di più coloro che dicono questo sono proprio quelli che anche in Russia sono stati contro quei metodi ed hanno combattuto anche là contro la dittatura del proletariato e contro il principio sovietista.
Voi vedete dunque come questo argomento della differenza di condizioni non si riduca che a uno dei tanti sofismi che si costruiscono per conchiudere: La rivoluzione sì, la dittatura sì, tutto quello che volete sì, ma non adesso, non in questo posto, domani, altrove. (Ilarità, commenti animati).
Dunque vediamo ora, di fronte a questo processo generale, come si è comportato il Partito socialista italiano. Quel processo di superamento – era naturale che ci si venisse – delle vecchie strutture, del vecchio meccanismo, dei vecchi sistemi che negli altri paesi si è fatto con lo spezzarsi dei Partiti all’attimo stesso della guerra, con la loro adesione esplicita alla causa borghese, si presentò in Italia in condizioni diverse. Vediamo come queste condizioni diverse debbano servire alle diverse conclusioni ed alle speciali esperienze che la situazione italiana e che il nascere in Italia di un movimento comunista, dovevano creare nel seno dell’Internazionale tutta. Vediamo se queste particolari condizioni conducono a concludere con quella che è la vostra affermazione, che il Partito socialista italiano è l’unico nel mondo che sarà passato attraverso la guerra, che andrà alla sua rivoluzione con tutta la sua struttura, oppure se invece la conclusione non sia amaramente l’opposta e cioè che qui la crisi deve essere più profonda e più aspra.
Ora se alla vigilia della guerra il nostro Partito aveva delle importanti esperienze teoriche e tattiche che io pongo anche al di sopra della sua opposizione alla guerra, si è perché nel nostro Partito si era iniziata la lotta tra la sinistra marxista e l’insidia socialdemocratica, non in quella forma precisa in cui teoricamente il problema era stato posto nel seno del Partito socialdemocratico russo perché non avevamo avuto una situazione rivoluzionaria come quella del 1905 in Russia, ma si era iniziato un dibattito tra le due tendenze, si era iniziata la demolizione dell’insidia democratica, il disincrostamento di quella ideologia piccolo-borghese che aveva addormentato il proletariato adagiandosi su quel meccanismo di attività elettorale e sindacale che era anche qui giunto al suo apogeo.
Perché quando sembrò trionfare il riformismo nel 1910-11 si fondava su queste due universali caratteristiche: sull’azione parlamentare possibilistica, e sull’azione corporativa minimalistica delle organizzazioni e dei sindacati e delle cooperative proletarie. Orbene, noi arrivammo a scrivere alcune tesi in senso marxista contro questi errori; ma avemmo noi il tempo, prima della guerra, di superare quella struttura e quel meccanismo? No. Noi trionfammo nei Congressi, noi condannammo la collaborazione elettorale, sconfessammo coloro che volevano arrivare alle conclusioni possibilistiche, mandammo via i massoni, dichiarammo di ritornare alle basi massimali e fondamentali del marxismo rivoluzionario, ma non avemmo il tempo di tradurre nella prassi quotidiana del Partito queste affermazioni, anche perché se la situazione in Italia era prima naturale, perché una scintilla della guerra europea aveva arso tra noi due anni prima, nella guerra libica, e ci aveva incanalato logicamente sulla via di questa revisione che oggi si estende e si completa, tuttavia non bastava, non c’erano state ancora quelle condizioni che in tutto il resto del mondo hanno posto inesorabilmente il problema in una nuova luce storica, non nella soluzione tattica che sulle basi del pensiero marxista si poteva dare in una situazione quasi normale dell’anteguerra, ma sulle basi di quella soluzione più compiuta che si può dare oggi dinanzi ad una inesorabile crisi che la guerra ha affrettato nel mondo intero.
Ed allora voi vedete – e non voglio ricordare ciò che molto bene è stato detto e ciò che c’è nella nostra relazione sulle caratteristiche dell’entrata dell’Italia in guerra, sulla maggiore o minore opposizione, ecc. – che questo nostro Partito – dico ed affermo – entrò nella guerra con la sua vecchia struttura e col suo vecchio meccanismo, coi suoi vecchi metodi parlamentari e sindacali, di cui si era intrapresa la correzione fino al punto di potersi impadronire della Direzione del Partito ma solo per cominciare un lavoro di tutti i giorni e di tutte le ore, anche durante la guerra, contro l’influenza del vecchio Partito riformista, che si annidava nelle sue antiche reti, che dominava nel Gruppo parlamentare e che dominava nei sindacati. Ed allora la guerra sorprende il Partito, che non ha ancora, e non poteva averlo, completato questo suo compito. E’ all’indomani della guerra che questo avrebbe dovuto avvenire, come negli altri paesi è avvenuto con una prima frattura tra fautori ed avversari della guerra, frattura che non è stata in nessun posto una frattura definitiva, perché tra gli avversari della guerra è occorso ancora fare un’altra distinzione, che non è fatta solo nella teoria, ma anche nella esperienza storica di tutto il mondo contemporaneo e cioè: Siete stati contrari alla guerra soltanto perché avreste desiderato che la guerra non ci fosse, perché avete deprecato questo fenomeno che ha sconvolto i vostri antichi schemi riformisti, pacifisti, cristiani, umani o siete contro la guerra nel senso di dire che è giunta l’ora di passare alla guerra guerreggiata tra le classi, alla violenza rivendicatrice… (Applausi). E’ la terza volta che sono costretto a ricordare questo concetto, e se applaudite sempre stiamo freschi!
Dunque, anche tra gli avversari della guerra, si riproduce la seconda frattura. In Italia della prima non vi fu bisogno, lo concedo, ma la seconda non si produsse. Il Partito si svegliò all’indomani della guerra in una situazione che aveva delle caratteristiche rivoluzionarie, ma che non era certamente la situazione in cui si svegliò il movimento socialista russo o tedesco. E’ indubbio, è pacifico che, tra i paesi vincitori, era l’Italia quello che usciva dalla guerra con la situazione più tesa, più economicamente critica, ma dall’altra parte non si delineò immediatamente il problema della conquista del potere da parte del proletariato, dinanzi al quale si sarebbe spezzato inevitabilmente l’antico partito. Esso si delineò per riflesso di quella revisione universale dei valori socialisti che prendeva ammaestramento dalla rivoluzione russa e dalle rivoluzioni degli altri paesi.
Orbene, disgraziatamente bisogna constatare che questo partito, all’indomani della guerra, ha ripreso la sua funzione: ha cambiato la formula, ha cambiato il programma, ha seguitato ad essere diretto da uomini di sinistra, ha anche inneggiato alla rivoluzione ed ai metodi che si erano riaffermati nella rivoluzione russa, alla dittatura del proletariato, al sistema sovietista, ma ciò che più premeva in questo meccanismo, che per tanti anni aveva girato così e che attendeva la fine della guerra per cominciare a seguitare a girare, per rifare le sue ruote nella organizzazione economica, nei comitati elettorali, ciò che più premeva era di chiudere la parentesi per rimettersi a tessere quella medesima tela, servendosi dell’opposizione alla guerra non per una feroce revisione rivoluzionaria dei valori, non per guardare in faccia all’avvenire e per dire: “Bisogna radicalmente mutare l’indirizzo attraverso le nuove vie,” ma semplicemente per fermarsi a dire: “Siamo stati contro la guerra e quando verrà la grande baraonda elettorale, in nome di questa opposizione, eleggeteci”. (Applausi).
Ed in questo, o compagni, forse avremo errato. Lo dirà l’avvenire; ma se noi fummo contrari a questo esperimento elettorale del dopo guerra si fu perché prevedevamo che attraverso l’apertura di questa valvola di sicurezza sarebbero sfuggite e si sarebbero disperse le energie rivoluzionarie che erano nel seno della società borghese. Il fatto è che attraverso questo processo il Partito è oggi quello che era alla vigilia della guerra: il miglior Partito della II Internazionale, ma non ancora un Partito della III Internazionale, non ancora un Partito maturo per l’esplicazione di quel tracciato rivoluzionario che solo secondo la dottrina nostra comunista e l’esperienza storica del mondo intero può condurre il proletariato al processo rivoluzionario.
Una voce: Vi vedremo all’opera!
Bordiga: Verrò poi anche a questo. Ma noi diciamo intanto che questo Partito, appunto perché prima della guerra aveva scritto delle pagine nel senso marxista, doveva trovare, come ha trovato, nonostante molte difficoltà, in una sua corrente di sinistra la coscienza e la capacità di elaborare anche qui quelle conclusioni in senso rivoluzionario che altrove sono state elaborate o si vanno elaborando. E noi crediamo che in questo tracciato della nostra via non è soltanto il monito, e tanto meno l’imposizione che può venire dall’estero, ma è la stessa forza dei nostri precedenti, è la nostra esperienza che ci sovviene nel costruire appunto queste nostre conclusioni. Bisognava intendere che se era marxista e se era rivoluzionario, nella vigilia della guerra, dire “intransigenza, niente blocco elettorale politico, niente blocco elettorale amministrativo, niente collaborazione, niente massoneria”, oggi intransigenza vuol dire qualche cosa di più. Se ieri collaborazione di classe voleva dire ministri socialisti in un regio Ministero, oggi collaborazione di classe vuol dire invece un Ministero socialista sovrapposto alla struttura statale dell’oppressione borghese.
Se ieri intransigenza voleva dire buttar fuori chi voleva andare al Governo, il mettersi la feluca del regio servitore, oggi intransigenza vuol dire liberarsi da chiunque non comprende che la lotta deve essere contro le istituzioni politiche borghesi, che la lotta deve essere per la conquista integrale, rivoluzionaria del potere, da parte del proletariato, secondo le previsioni e la dottrina di Marx.
Quindi, o compagni, è questo sviluppo che il Partito deve compiere. Ora voi mi direte: l’ha compiuto a Bologna. Ha accettato il programma massimalista, ha aderito alla Terza Internazionale, ha scritto queste tesi sulla sua tessera. Ma abbiamo avuto dopo un periodo, oggi sfruttato da coloro che allora si dichiararono disciplinati al programma massimalista, e che oggi sono felici di dire alla maggioranza di allora, non più di oggi: “Ebbene questo vostro programma massimalista ha fallito”, ed è un’altra simile disciplina che essi vi offrono, la disciplina di chi tace aspettando la bancarotta di quel programma a cui aveva messo la sua firma. (Applausi).
Voi ci dite – è una obiezione che io raccolgo en passant – che questo nostro attaccamento all’applicazione in Italia dell’esperienza comunista è qui fuori di posto, che questa nostra idolatria per la violenza che altrove, sotto altri climi, sotto altri cieli si è verificata, è una conseguenza della mentalità di guerra, che fra noi ci sono i socialisti di guerra. Ebbene, o compagni, dopo aver ricordato che, senza fare paragoni, tra noi vi sono dei vecchi e dei giovani che noi ricordiamo nell’ora della vigilia della guerra sempre uguali a se stessi, e senza nessuna esitazione dinanzi all’insidia socialpatriottica, che molti sarebbero oggi tra noi di quei giovani se la guerra stessa non li avesse sacrificati alla causa della borghesia, mentre io rivendico ciò che ci allaccia al passato di questo partito ed anche a quelli che a noi hanno appreso, uomini che oggi sono nell’altra sponda, mentre io rivendico questo, voglio anche dire che questo fenomeno, che deve essere considerato obiettivamente, del socialista di guerra, a me piace raffrontarlo con quello del socialista della parentesi di guerra, del socialista che non ha bestemmiato perché ha taciuto, del socialista che, quando invece di essere duecentocinquantamila eravamo nelle tessere ventimila e nella pratica poche centinaia, non ha detto nulla, ma che poi, passata la bufera, è venuto a dire: “Siamo stati contro la guerra”, ed è andato nei comizi elettorali a valersi di questo. (Applausi).
Molte voci: Ce ne sono anche tra voi!
Bordiga: Sì, o compagni, ve ne saranno anche tra noi di questi socialisti della parentesi di guerra, non lo escludo, non lo discuto, io non confronto due tendenze, io confronto due stati d’animo e due genesi dell’attitudine rivoluzionaria, e dico che io, che socialista di guerra non sono stato mai, preferisco quei giovani che, attraverso l’esperienza tratta dall’infamia capitalistica e dall’essere stati inviati al fratricidio sui fronti della battaglia borghese, sono tornati con la nuova fede della guerra per la rivoluzione… (Applausi vivissimi dei comunisti, rumori).
E chiudiamo anche questa parentesi. Ora, nello svolgersi di questo Congresso, l’analisi di una tendenza è stata già fatta. Il compagno Terracini l’ha fatta con argomenti sufficienti perché io vi debba ritornare. Egli vi ha dimostrato con l’evidenza più schiacciante come il pericolo socialdemocratico si raffiguri nella Destra di questo Partito. Io voglio andare oltre, io devo, con ogni sincerità, andare oltre.
Dal momento che a questa dimostrazione nulla ha risposto, e forse per la stessa ragione nulla poteva rispondere, l’oratore del Centro, bisogna conchiudere – e qui nulla dico che possa menomare l’onestà e la coscienza di alcuno – che il pericolo che altrove rappresenta il movimento di Destra per la Terza Internazionale, in questo Congresso va raffigurato nella tendenza del Centro, attraverso gli argomenti che essa ha adoperato, che essa ha portato a questa tribuna, e che io domando, al disopra delle persone, sul terreno delle idee, di potere qui rapidamente, prima di conchiudere, analizzare e discutere.
Gli oratori della tendenza del Centro hanno qui svolto il loro pensiero. Sostanzialmente che cosa hanno detto? Dicono: “Sì, siamo, per esempio, per la dittatura, siamo per la violenza”; ma mentre a Bologna l’adesione era incondizionata, era entusiastica, e sembrava che si dicesse: “Datecene una dose di più di dittatura, la prenderemo, datecene una dose di più di violenza, la prenderemo”, oggi l’oratore unitario navigava tra gli argomenti come a Bologna navigava l’oratore della Destra. Diceva: “Dittatura sì, in questo senso, con questa significazione, con quest’altra restrizione; violenza, sì, ma fino a questo punto, dopo questa premessa”.
Ma io vi domando, perché non voglio discutere questo argomento in sé, ma io vi domando: perché questa preoccupazione, qual è il pericolo? Credete veramente voi che questa massa proletaria sia troppo pronta a far valere esageratamente il suo peso sul suo avversario, vi preoccupate quindi che essa graviti un po’ troppo sull’avversario che oggi la calpesta? Ora questa vostra preoccupazione, questa vostra attenuazione delle nostre tesi di Bologna non può avere altra ragione ed altra spiegazione se non questa, che certo voi non darete, ma che io qui do e affermo: la necessità di diminuire la distanza con quell’Estrema destra che a Bologna, insieme a noi, avete combattuto. (Applausi).
Quindi il vostro argomento sostanziale viene a cadere.
Né voglio parlare del concetto della disciplina, che riportate qui, e che effettivamente a Bologna trovò il consentimento della maggioranza del Partito. Io ritengo, noi riteniamo, per le ragioni già dette, che le esperienze di questo periodo siano sufficienti a condannare questo meccanismo della disciplina così come voi lo intendete, che consiste nel sovrapporre un programma rivoluzionario ad un meccanismo non rivoluzionario, nel dare una bandiera rivoluzionaria ad un esercito non rivoluzionario, onde quando voi irridete alla nullità ed alla sterilità della ideologia rivoluzionaria, quando vi mostrate soddisfatti allorché potete constatare uno scacco del metodo rivoluzionario, voi irridete, voi condannate un metodo che non è il nostro, che è il vostro, che è perfettamente opposto a quello che noi sosteniamo, perché gli insuccessi del massimalismo sono gli insuccessi non del massimalismo in sé, ma di quel vostro massimalismo che ha voluto tenere nel suo seno i rappresentanti della corrente di Destra. (Applausi).
Un altro argomento caratteristico della relazione e delle argomentazioni della tendenza unitaria è questo (uno lo ha criticato Terracini): la aderenza fra Partito e movimento sindacale. Mi è sembrato di ritornare alle nostre discussioni del 1912 e del 1914 e di sentire Treves e Modigliani ripetere le loro vecchie ed oneste convinzioni socialdemocratiche a questa tribuna, allorquando mi si voleva identificare il Partito con la tarda struttura delle organizzazioni economiche. Non solo, ma la mozione proposta dall’altra tendenza, e che è stata portata con l’autorizzazione nel testo che verrà a questo Congresso, non è affatto chiara sul problema sindacale. Subordinazione di ogni ragione sindacale ad ogni ragione politica. Ma subordinazione come? Facendo sì – se abbiamo bene inteso – che tutti gli organizzatori siano iscritti al partito. Per decisione di chi? Ma si avrebbe che l’organizzazione che acquista il diritto di dare la tessera del Partito politico a tutti gli organizzati, diventa padrona nel Partito, come tentò durante la guerra, allorquando propose di fare dirigere il movimento da Comitati in cui il Partito e l’Organizzazione sindacale fossero ugualmente rappresentati. Ma infine il concetto centrale – oltre un altro che mi sarà lecito accennare – il concetto centrale è questo: noi siamo per la selezione nel Partito, ma vogliamo lavorare quando le condizioni saranno mature. Ma non vedete che è appunto compito del Partito, nel senso marxista, di trovarsi nel momento dell’urto con già schierati sotto la sua bandiera solo quelli che sicuramente cammineranno per la diritta via?
E vengo al concetto dell’unità, dove appare la nuova formula, la nuova tesi, il nuovo processo rivoluzionario che al di là dello schema marxista, al di là delle tesi della Terza Internazionale deve realizzarsi in Italia. Nuova affermazione, cioè, che alla rivoluzione il proletario italiano ci va con questo Partito, con tutte le sue conquiste, con tutti i fortilizi di cui abbiamo preso possesso, cioè la Lega delle Cooperative, le rappresentanze elettive dei Comuni, delle Province e del Parlamento, in quanto che tutto ciò costituisce già un apparato di potere nelle mani della classe operaia. Ecco una tesi che definisce chiaramente quella corrente che la Terza Internazionale non vuole avere nel suo seno perché questa tesi è squisitamente riformistica. Noi invece, con la tattica di Mosca, affermiamo che questi fortilizi, questi Comuni, questi seggi parlamentari, queste Cooperative, queste Leghe possono essere i fortilizi della rivoluzione, ma non lo sono per definizione, bensì solamente perché sono nelle mani di un Partito proletario: essi possono essere altrettanti buoni fortilizi della contro-rivoluzione nelle mani di un Partito socialdemocratico, quando siano nelle mani di un Partito che non sia per questa frattura decisiva che caratterizza il sorgere della Terza Internazionale?
Il più delle volte non sono nulla, ma molto facilmente corrispondono più alla seconda che alla prima funzione, servono più alla conversione che non alla elevazione. Ed allora si tratta di vedere appunto se questi organismi che il Partito possiede sono coefficienti che possono essere autorizzati allo sforzo rivoluzionario e non devesi quindi avanzare una tesi in cui si dice che tutto quanto è nelle nostre mani quando invece esso comprende in sé elementi disparati e lontani. Tutto questo può essere utilizzato per la causa della rivoluzione. Perché? Perché – affermazione stranissima – tutto ciò costituisce un apparato di potere in mano al Partito: il Partito socialista italiano sarebbe uno Stato nello Stato, un istituto contro l’istituto della borghesia, una eccezione stranissima all’antitesi che la storia ha scritto “tutto il potere ai borghesi o tutto il potere ai proletari”.
Noi non solo siamo con la tattica di Mosca di fronte a questa eresia, ma siamo con Marx, il quale diceva che al proletariato le sue organizzazioni, i suoi fortilizi non servono per dargli un patrimonio perché finché di fronte al potere esso è l’eterno diseredato, sono solo delle punte per costituire la forza per l’ulteriore battaglia rivoluzionaria, nella quale battaglia rivoluzionaria il proletariato non ha da perdere altro che le sue catene, mentre ha un mondo da guadagnare. (Applausi).
E molte volte questo ingranaggio e questa struttura, questi che a volte sembrano, per definizione, dei fortilizi, sono invece proprio le catene, le più sottili ma le più tenaci, che il proletariato deve spezzare per andare alla conquista del mondo. Quindi, o compagni, è da qui che è sorto l’insegnamento, è da qui che è sorta la costruzione di questa nuova tesi. Ecco però ciò che da qui scaturisce: allorquando a Mosca noi proponevamo un emendamento, che fu poi messo nei 21 punti, e che diceva appunto che nessun Partito della Seconda Internazionale può entrare nella Terza se non toglie dal suo seno quelle minoranze socialdemocratiche, e questo emendamento fu trasformato nel 21° punto il quale in una forma che può apparire più individuabile, dice che tutti coloro che non condividono per principio le condizioni e le tesi dell’Internazionale comunista dovranno essere esclusi dal Partito e lo stesso vale per i delegati al Congresso, orbene, queste indicazioni, come l’altra in