C’è stato un tempo in questo Paese in cui i giornali rappresentavano un presidio di civiltà, di libertà, di democrazia. C’è stato un tempo in questo Paese in cui il giornalismo era davvero una professione che non si limitava a fare da megafono ma indagava, osservava, raccontava e presidiava quelle libertà che in Italia troppo spesso sono state a rischio.
C’è stato un tempo in questo Paese, in cui il giornalismo non faceva sconti, non si piegava, non si nascondeva.
C’è stato un tempo in questo Paese in cui i giornalisti hanno pagato un prezzo altissimo in termini di sangue.
Il 28 maggio del 1980 alle 11 del mattino in via Salaiano a Milano un commando di terroristi della Brigata XXVIII marzo uccise con 5 colpi, tutti sparati alle spalle, il giornalista 33enne del Corriere della Sera, Walter Tobagi.
Era una mattina di pioggia a Milano, Tobagi era sceso di casa da poco, stava andando a riprendere la sua mini nel “Garage Del Parco”, i 6 terroristi, ragazzi tutti figli dell’alta borghesia, lo seguirono e poi aprirono il fuoco lasciando a terra un padre di famiglia che andava a lavorare.
Il giovane giornalista cade a faccia in giù nelle pozzanghere, sotto la pioggia, con l’ombrello ancora chiuso. La moglie Stella, a casa con la figlia Benedetta di 3 anni, scense dopo aver sentito gli spari e la scena che si trovò davanti entrerà nella storia italiana, una scena che però per lei, per suo figlio Luca, di 7 anni, e per Benedetta, è un dramma familiare, umano, personale.
Walter Tobagi sapeva di essere un obiettivo dei terroristi, lo sapeva perché era stata trovata una scheda con i suoi dati tra gli obiettivi da colpire in una borsa dei Reparti Comunisti d’Attacco. Walter Tobagi lo sapeva, era cosciente di essere in pericolo e ha continuato a fare il suo mestiere, a raccontare, a pensare, a studiare, in un atto di libertà che ha superato il suo tempo e che è sopravvissuto anche al suo omicidio.
C’è stato un tempo nel nostro Paese, in cui i giornalisti furono al centro degli attacchi dei terroristi, perché il loro raccontare era libero. Furono gambizzati e uccisi, giornalisti di tutte le sensibilità politiche, uomini che avevano fatto la resistenza. Furono colpiti perché chi vive la violenza come uno strumento politico naturale è impaurito dalla potenza delle parole.
L’omicidio di Tobagi ha segnato e segna la storia d’Italia. Ci sono vari aspetti che colpiscono, innanzitutto la provenienza sociale degli attentatori. Sono giovani borghesi, provengono dalle famiglie che rappresentano i poteri forti del mondo editoriale italiano. Marco Barbone, ad esempio, è il figlio di Donato Barbone, dirigente editoriale di una casa editrice della RCS, Paolo Morandini è il figlio del critico cinematografico Morendo Morandini de Il Giorno. Sono anni nei quali molti giovani si esaltano, perdono lucidità e si fanno inghiottire, più per narcisismo che per ideologia, in una guerra che vedono solo loro e che hanno dichiarato unilateralmente contro tutti. Un conflitto immaginato che li porta a colpire persone in carne ed ossa che invece quella guerra non l’hanno dichiarata, uomini che i terroristi, in un turbine di idiozie, trasformano in simboli. Tobagi aveva scritto molto sul terrorismo rosso, ma la sua ricerca si era concentrata sulle questioni sindacali. Uscirà postumo il suo saggio “Che cosa contano i sindacati”. Un lavoro fondamentale e dalla carica riformista enorme. Proprio suo riformismo fu punito quella mattina di maggio a Milano, questo suo essere innovativo, questa suo visione.
Sono passati 40 anni da quella mattina quando un uomo di 33 anni, si perché allora a 33 anni si era uomini, un giornalista, si perché allora i giornalisti esistevano ancora e non vivevano di precariato, fu ucciso per le sue idee, per le sue parole, per la forza che dalla sua penna si posava sui fogli. Una forza che nessun proiettile ha fermato e che oggi ricordiamo ancora.
Il 20 aprile del 1980, a pochi giorni dal suo omicidio, Tobagi scrisse un articolo limpido, chiaro e netto che sottolineva le debolezze emerse all’interno delle BR. “È tanto estesa l’organizzazione brigatista o un gruppo di poche decine riesce a sembrare un piccolo esercito?” si domandava. La risposta alla quale giunge Tobagi, spoglia le narcisiste Brigate Rosse del loro fascino rivoluzionario, mostra come si sia esaurita ogni spinta realmente rivoluzionaria di un movimento mai stato veramente popolare. “Sono isolati dal grosso della classe operaia” scrive nell’articolo, racconta una realtà, la svela al lettore, la mette in luce e chiude l’articolo rilanciando l’idea di un’Italia che poteva farcela “senza pensare che i brigatisti debbano essere, per forza di cose, samurai invincibili”.
La storia del giovane Walter ucciso a 33 anni per le sue idee, per le sue parole e per il suo inchiostro ci fa capire che c’è stato un tempo in questo Paese in cui fare i giornalisti non significava rincorrere un click o un like, ma difendere la libertà e la democrazia raccontando ciò che accade.