La battaglia di Adua del primo marzo del 1896 pose fine al primo colonialismo italiano in Africa. Quella fu una sconfitta così cocente per l’Italia che ha rappresentato anche nella cultura popolare una cesura. Quella sconfitta significò infatti oer gli italiani, scoprire un Paese non pronto a competere con le altre potenze mondiali e con una realtà militare del tutto inefficiente. Quella battaglia nella quale persero la vita circa 4mila soldati italiani e 2mila etiopi, negli anni fu riscritta come un gesto eroico e coraggioso del nostro esercito.
Ma dietro la narrazione epica dell'eroismo italico si nascondeva invece una realtà ben diversa. Il nostro esercito rappresentava il massimo grado di sfruttamento delle classi subalterne italiane. Contadini, braccianti, proletariato e sottoproletariato, erano la prima linea, carne da cannone che veniva mandata a morire da un governo elitario e da quegli ufficiali che invece erano figli della borghesia industriale e agraria e della nobiltà.
Per gli italiani, per quelli che avevano dovuto abbandonare le case, le terre le famiglie e che al ritorno, se fossero sopravvissuti, non avrebbero trovato nulla se non maggior fame e disperazione, la guerra non aveva nulla di eroico e di epico.
Ma Adua, proprio per la narrazione che se ne fece non rappresentò la fine del colonialismo italiano, non frenò le fantasie maldestre di molti e non segnò un'evoluzione reale della visione italiana dell'Africa. Il fascismo si basava su un'idea tanto forte quanto anacronistica e fuorviante di un'Itlia imperialista capace di tornare ai fasti dell'impero romano. Su queste basi ideologiche, esaltando il sacrificio degli italiani proprio nella battaglia di Adua del 1896, il fascismo ricominciò l'impresa coloniale in Africa. Il 3 ottobre senza neanche una dichiarazione di guerra l'Italia invae e occupò l'Etiopia utilizzando una violenza inaudita che mirava a terrorizzare anche la popolazione civile che subì ogni tipo di abuso. Fu uno dei primi casi di utilizzo di armi chimiche. A denunciare la situazione fu il Negus Haile Selassie I, Imperatore d’Etiopa, con in un discorso che tenne in aramaico alla Società delle Nazioni il 12 maggio del 1936.
A 124 anni da quella tragedia di Adua sembra calato il silenzio sul nostro passato coloniale. Ricordare invece quello che il nostro popolo ha fatto di sbagliato nella storia è fondamentale per leggere il presente e per evitare gli stessi erroi. Ricordare poi con gli occhi di chi ha subito le nostre violenze, serve a riscrivere con maggiore realtà un ricordo che proviamo a cancellare.
Io, Haile Selassie I, Imperatore d’Etiopia, sono qui oggi per richiedere la giustizia che è dovuta al mio popolo, e l’assistenza promessa ad esso otto mesi fa, quando cinquanta Nazioni affermarono che un’aggressione fu commessa in violazione dei trattati internazionali.
Non c’é precedente per cui un Capo di Stato parli in prima persona a questa assemblea. Ma non c’é neanche precedente per cui un popolo sia vittima di così tanta ingiustizia ed attualmente minacciato di essere abbandonato al suo aggressore. Inoltre, non abbiamo mai avuto esempio di un Governo che proceda a sterminare sistematicamente una Nazione con mezzi barbari, in violazione delle più solenni promesse fatte dalle Nazioni della terra che non sarebbe mai stata usata l’arma terribile dei gas venefici contro esseri umani innocenti. È per difendere un popolo che lotta per la sua antica indipendenza che il Capo dell’Impero Etiope é giunto a Ginevra per compiere il suo dovere supremo dopo aver combattuto in prima persona in testa alle sue armate.
Prego Dio Onnipotente affinché risparmi alle Nazioni le terribili sofferenze che sono state appena inflitte al mio popolo, e di cui i capi che qui mi accompagnano sono stati inorriditi testimoni.
È mio dovere informare i governi riuniti a Ginevra, responsabili quali sono della vita di milioni di uomini, donne e bambini, del mortale pericolo che li minaccia, descrivendo loro il destino che ha colpito l’Etiopia. Non è soltanto contro i combattenti che il governo italiano ha fatto la guerra. Ha attaccato soprattutto persone molto lontane dal fronte, al fine di terrorizzarle e sterminarle. Inizialmente, verso la fine del 1935, aerei italiani hanno lanciato bombe di gas lacrimogeni sulle mie armate. Gli effetti vi furono, seppur leggeri. I soldati appresero a sparpagliarsi, aspettando che il vento disperdesse rapidamente i gas velenosi. L’aviazione italiana ricorse allora all’iprite. Barili di liquido furono gettati su gruppi armati. Ma questo mezzo non fu efficace, il liquido colpì solo pochi soldati, e gli stessi barili al suolo fungevano come avvertimento del pericolo per le truppe e la popolazione. È stato nel momento in cui le operazioni per l’accerchiamento di Makallè si svolgevano che il comando italiano, temendo una disfatta, ha seguito la procedura che è ora mio dovere denunciare al mondo. Irroratori speciali sono stati installati a bordo degli aeromobili in modo da poter vaporizzare, su vaste aree di territorio, una fine, mortale pioggia. Gruppi di nove, quindici, diciotto aeroplani si susseguivano in modo che la nebbia che usciva da essi formasse una distesa continua. Fu così che, a partire dalla fine di gennaio del 1936, soldati, donne, bambini, bovini, fiumi, laghi e campi furono irrorati con questa pioggia mortale. Al fine di uccidere sistematicamente tutte le creature viventi, al fine di avvelenare con certezza le acque e i pascoli, il comando italiano ha fatto passare più e più volte i suoi velivoli. Quella fu la loro principale strategia di guerra.
Devastazione e terrore
Il vero affinamento nella barbarie consisté nel portare la devastazione e il terrore nelle parti più densamente popolate del territorio, i punti più lontani dalla scena delle ostilità. Lo scopo era quello di spargere paura e morte su una gran parte del territorio etiope. Queste tattiche di induzione della paura ebbero successo. Uomini ed animali soccombettero. La pioggia mortale che veniva dagli aerei faceva morire con grida di dolore tutti coloro che toccava. Chiunque abbia bevuto l’acqua avvelenata o mangiato i cibi infetti morì con terribili sofferenze. Decine di migliaia di vittime dell’iprite italiana caddero. È per denunciare al mondo civile le torture inflitte al popolo etiope che mi sono deciso a venire a Ginevra. Nessuno oltre Me stesso ed i miei coraggiosi compagni di armi avrebbero potuto portare alla Lega delle Nazioni l’incontestabile prova. Gli appelli dei miei delegati rivolti alla Società delle Nazioni rimasero senza alcuna risposta; i miei delegati non furono testimoni. Per questo motivo ho deciso di venire io stesso a testimoniare contro il crimine perpetrato contro il mio popolo e dare un avvertimento del destino che attende l’Europa, se dovesse inchinarsi di fronte al fatto compiuto.
È necessario ricordare all’Assemblea le varie fasi del dramma etiope? Per i 20 anni passati, sia come reggente dell’Impero, che come Imperatore, non ho mai smesso di sforzarmi per portare al mio paese i benefici della civiltà, e in particolare per stabilire relazioni di buon vicinato con le potenze confinanti. In particolare sono riuscito a concludere con l’Italia il trattato di amicizia del 1928, che vietava assolutamente il ricorso, sotto qualunque pretesto, alla forza delle armi, sostituendo alla forza e alla pressione la conciliazione e l’arbitrato su cui le Nazioni civili hanno fondato l’ordine internazionale.
Paese più unito
Nella sua relazione del 5 ottobre 1935, il Comitato dei Tredici riconobbe il mio impegno ed i risultati che avevo ottenuto. I governi pensavano che l’ingresso dell’Etiopia nella Lega, pur dando al paese una nuova garanzia per il mantenimento della sua integrità territoriale ed indipendenza, l’avrebbe aiutata a raggiungere un livello superiore di civiltà. Non sembra che in Etiopia oggi ci sia più disordine e insicurezza rispetto al 1923. Al contrario, il paese è più unito e il potere centrale è meglio obbedito.
Avrei potuto procurare risultati ancora maggiori per il mio popolo, se ostacoli di ogni genere non fossero stati messi sul percorso dal governo italiano, il governo che ha suscitato la rivolta e armato i ribelli. Infatti il governo di Roma, come ha oggi proclamato apertamente, non ha mai smesso di prepararsi per la conquista dell’Etiopia. I trattati di amicizia che ha firmato con me non erano sinceri, il loro unico scopo era quello di nascondermi le loro reali intenzioni. Il Governo italiano afferma che si è preparato per 14 anni a conseguire la sua conquista attuale. Pertanto, ammette oggi che quando appoggiò l’ammissione dell’Etiopia alla Società delle Nazioni nel 1923, quando ha concluso il trattato di amicizia nel 1928, quando ha firmato il Patto di Parigi che bandiva la guerra, stava ingannando il mondo intero. Al governo Etiope sono state, in questi solenni trattati, date ulteriori garanzie di sicurezza che consentissero di realizzare ulteriori progressi lungo il percorso pacifico di riforma su cui aveva mosso i suoi passi, e al quale stava dedicando tutta la sua forza e tutto il suo cuore.
Il pretesto di Ual-Ual
L’incidente di Ual-Ual, nel dicembre del 1934, arrivò come un fulmine per me. La provocazione italiana era evidente e non ho esitato a ricorrere alla Società delle Nazioni. Ho invocato le disposizioni del trattato del 1928, i principi del Patto, ho sollecitato la procedura di conciliazione e di arbitrato. Sfortunatamente per l’Etiopia era il momento in cui un certo governo riteneva che la situazione europea rendesse imperativo a tutti i costi ottenere l’amicizia dell’Italia. Il prezzo pagato fu l’abbandono dell’indipendenza Etiope per l’avidità del Governo italiano. Questo accordo segreto, contrario agli obblighi del Patto, ha esercitato una grande influenza sul corso degli eventi. L’Etiopia e il mondo intero hanno sofferto e stanno ancora soffrendo oggi le sue disastrose conseguenze.
La prima violazione del Patto è stata seguita da molte altre. Sentendosi incoraggiato nella sua politica contro l’Etiopia, il governo di Roma febbrilmente mise in atto i preparativi per la guerra, pensando che la pressione concertata che cominciava a essere esercitata sul governo Etiope potesse non superare la resistenza del mio popolo al dominio italiano. Il tempo doveva venire, in cui ogni sorta di difficoltà fu messa sul percorso, al fine di abbattere la procedura di conciliazione e di arbitrato. Ogni tipo di ostacolo fu posto allo svolgersi di tale procedura. I governi cercarono di evitare che il governo Etiope trovasse arbitri fra i suoi cittadini: una volta che il tribunale arbitrale fu istituito fu esercitata pressione in modo tale che venisse concesso un riconoscimento favorevole per l’Italia.
Tutto fu vano: gli arbitri, due dei quali erano funzionari italiani, sono stati costretti a riconoscere all’unanimità che, nell’incidente di Ual-Ual, come negli episodi successivi, nessuna responsabilità internazionale era da attribuire all’Etiopia
Gli sforzi di pace
Dopo questo riconoscimento, il governo Etiope sinceramente pensava che un’era di relazioni amichevoli potesse essere aperta con l’Italia. Ho offerto la mia mano con lealtà al governo romano. L’Assemblea è stata informata dalla relazione del Comitato dei Tredici, datata 5 ottobre 1935, dei dettagli degli eventi che si sono verificati dopo il mese di dicembre 1934, e fino al 3 ottobre 1935.
Sarà sufficiente se cito alcune delle conclusioni di tale relazione (nn. 24, 25 e 26) “Il memorandum italiano” (contenente le denunce presentate dall’Italia) è stato posato sul tavolo del Consiglio il 4 settembre 1935, mentre il primo appello dell’Etiopia al Consiglio risaliva al 14 dicembre 1934. Nell’intervallo tra queste due date, il governo italiano si oppose alla considerazione del quesito del Consiglio sulla base del fatto che l’unica procedura adeguata era quella prevista dal Trattato italo-etiope del 1928. Durante tutto quel periodo, inoltre, l’invio di truppe italiane in Africa Orientale stava procedendo. Queste spedizioni di truppe sono state presentate al Consiglio dal Governo Italiano come necessarie per la difesa delle sue colonie minacciate dai preparativi Etiopi. L’Etiopia, al contrario, concentrava l’attenzione sulle dichiarazioni ufficiali rilasciate dall’Italia che, a suo parere, non lasciavano dubbi “riguardo alle intenzioni ostili del governo italiano”.
Fin dall’inizio della controversia, il governo etiope ha cercato una soluzione con mezzi pacifici. Si è appellato alle procedure del Patto. Il governo italiano era desideroso di seguire scrupolosamente le procedure del trattato italo-etiope del 1928, il governo etiope acconsentì. Ha sempre dichiarato che avrebbe seguito fedelmente il riconoscimento arbitrale, anche se la decisione fosse contro di essa. Ha convenuto che la questione della proprietà di Ual-Ual non dovesse essere trattata dagli arbitri, perché il governo italiano non sarebbe stato d’accordo a seguire tale corso. Ha chiesto al Consiglio l’invio di osservatori neutrali e si offrì di prestarsi a qualsiasi richiesta di informazioni che il Consiglio potesse decidere.
Una volta che la controversia di Ual-Ual fu risolta dall’arbirato, tuttavia, il Governo italiano ha presentato la sua relazione dettagliata al Consiglio a sostegno della sua pretesa di libertà d’azione. Essa ha affermato che un caso come quello dell’Etiopia non potesse essere risolto attraverso gli strumenti previsti dal Patto. Ha dichiarato che, “poiché la questione riguarda gli interessi vitali ed è di primaria importanza per la sicurezza e della civiltà italiana” questa “verrebbe meno al suo dovere più elementare, se non cessasse una volta per tutte di riporre fiducia nell’Etiopia, riservandosi piena libertà di adottare tutte le misure che si rendessero necessarie per garantire la sicurezza delle sue colonie e per salvaguardare i propri interessi”.
Patto violato
Questi sono i termini della relazione della Comitato dei Tredici. Il Consiglio e l’Assemblea hanno adottato all’unanimità la conclusione che il governo italiano aveva violato il Patto ed era in uno stato di aggressione. Non ho esitato a dichiarare che non volevo la guerra, che mi è stata imposta, e che avrei lottato solo per l’indipendenza e l’integrità del mio popolo, e che in quella lotta sono stato il difensore della causa di tutti i piccoli Stati esposti all’avidità di un paese potente confinante.
Nel mese di ottobre 1935 le 52 Nazioni che mi stanno ascoltando oggi mi hanno assicurato che l’aggressore non avrebbe trionfato, che le risorse del Patto sarebbero state impiegate al fine di assicurare la vittoria del diritto e il fallimento della violenza.
Chiedo alle cinquantadue Nazioni di non dimenticare oggi la politica nella quale si imbarcarono otto mesi fa, e la fede con cui ho diretto la resistenza del mio popolo contro l’aggressore che aveva denunciato al mondo. Nonostante l’inferiorità delle mie armi, la completa mancanza di aerei, artiglieria, munizioni, servizi ospedalieri, la mia fiducia nella Lega era assoluta. Ho pensato che fosse impossibile che cinquantadue Nazioni, tra cui la più potente del mondo, potessero venire contrastate con successo da un unico aggressore. Contando sulla fede dovuta ai trattati, non ho messo in atto alcun preparativo per la guerra, e questo è anche il caso di alcuni paesi di piccole dimensioni in Europa.
Quando il pericolo è diventato più urgente, essendo consapevole delle mie responsabilità verso il mio popolo, durante i primi sei mesi del 1935 ho cercato di acquistare armamenti. Numerosi governi hanno proclamato un embargo per impedirmi di farlo, mentre al governo italiano attraverso il Canale di Suez, sono stati garantiti tutti i servizi per il trasporto senza interruzioni e senza proteste, truppe, armi e munizioni.
Costretto alla mobilitazione
Il 3 ottobre 1935, le truppe italiane invasero il mio territorio. Solo poche ore dopo ho decretato la mobilitazione generale. Nel mio desiderio di mantenere la pace, seguendo l’esempio di un grande paese europeo alla vigilia della Grande Guerra, ho ordinato alle mie truppe di ripiegare per una trentina di chilometri in modo da eliminare ogni pretesto di provocazione.
La guerra poi ha avuto luogo nelle condizioni atroci che ho depositato presso l’Assemblea. In questa lotta impari tra un governo al comando di più di quarantadue milioni di abitanti, avente a disposizione mezzi finanziari, industriali e tecnici che gli hanno consentito di creare quantità illimitate delle armi più mortali, e, dall’altra parte, un piccolo popolo di dodici milioni di abitanti, senza armi, senza le risorse e che aveva dalla sua parte solo la giustizia della propria causa e la promessa della Lega delle Nazioni. Che tipo di assistenza vera e propria è stata data all’Etiopia dalle cinquantadue Nazioni che avevano dichiarato il governo di Roma colpevole di una violazione del Patto e si erano impegnate a impedire il trionfo dell’aggressore? Ha ciascuno degli Stati Membri, come era suo dovere fare in virtù della sua firma apposta all’articolo 15 del Patto, considerato l’aggressore come se avesse commesso un atto di guerra diretto personalmente contro se stesso? Avevo riposto tutte le mie speranze nella realizzazione di questi impegni. La mia fiducia era stata confermata dalle ripetute dichiarazioni fatte in sede di Consiglio al fine di stabilire che l’aggressione non doveva essere premiata, e che la forza avrebbe dovuto inchinarsi di fronte al diritto.
Nel dicembre del 1935, il Consiglio ha detto chiaramente che i suoi sentimenti erano in armonia con quelli di centinaia di milioni di persone che, in tutte le parti del mondo, avevano protestato contro la proposta di smembrare l’Etiopia. È stato costantemente ripetuto che non era soltanto un conflitto tra il governo italiano e la Società delle Nazioni, ed è per questo che rifiutai tutte le proposte a mio vantaggio personale avanzatemi dal governo italiano, poichè se lo avessi fatto avrei tradito il mio popolo e il Patto della Società delle Nazioni. Stavo difendendo la causa di tutti i piccoli popoli che sono minacciati di aggressione.
Che ne è stato delle promesse?
Che ne è stato delle promesse fattemi da molto tempo, dall’ottobre del 1935? Ho notato con dolore, ma senza sorpresa che tre potenze consideravano i loro impegni nel quadro del Patto come assolutamente di nessun valore. I loro collegamenti con l’Italia li spinsero a rifiutare di prendere ogni misura di sorta, al fine di fermare l’aggressione italiana. Al contrario, è stata una profonda delusione per me apprendere dell’atteggiamento di un certo governo che, pur manifestando sempre il suo attaccamento scrupoloso al Patto, ha instancabilmente applicato tutti i suoi sforzi per prevenire la sua osservanza. Appena qualsiasi provvedimento che poteva essere rapidamente efficace veniva proposto, vari pretesti sono stati elaborati al fine di rinviare anche l’esame di tali misure. Forse gli accordi segreti del gennaio 1935, prevedevano questa ostruzione instancabile?
Il governo etiope non si è mai aspettato che altri governi spargessero il sangue dei loro soldati per difendere il Patto quando i loro interessi personali non erano in gioco. I guerrieri etiopi hanno chiesto solo i mezzi per difendersi. In molte occasioni ho chiesto l’assistenza finanziaria per l’acquisto di armi. Questa assistenza mi è stata costantemente rifiutata. Che significano, allora, in pratica, l’articolo 16 del Patto e la sicurezza collettiva?
L’uso da parte del governo etiope della ferrovia da Gibuti ad Addis Abeba era nella pratica ostacolato per quanto concerneva il trasporto di armi destinate alle forze etiopi. Al momento attuale questo è uno, se non l’unico, dei mezzi di approvvigionamento degli eserciti di occupazione italiane. Le regole della neutralità avrebbero dovuto vietare i trasporti destinati alle forze italiane, ma non c’è neppure la neutralità in quanto l’articolo 16 stabilisce per ogni Stato membro della Lega il dovere di non rimanere neutrale e di venire in aiuto non dell’aggressore, ma della vittima di un’aggressione. È stato rispettato il Patto? Viene rispettato oggi?
Infine, una dichiarazione è stata appena effettuata nei Parlamenti dei Governi di alcune Potenze, tra cui i membri più influenti della Lega delle Nazioni, secondo cui, poiché l’aggressore è riuscito a occupare gran parte del territorio Etiope, si propone di non continuare ad applicare nessuna misura economica e finanziaria che fu decisa contro il governo italiano. Queste sono le circostanze in cui, su richiesta del governo argentino, l’Assemblea della Società delle Nazioni si riunisce per esaminare la situazione creatasi a seguito all’aggressione italiana. Affermo che il problema sottoposto all’approvazione dell’Assemblea oggi è molto più ampio. E non è solo una questione legata all’insediamento dell’aggressione italiana.
Lega Minacciata
E’ la sicurezza collettiva: è l’esistenza stessa della Lega delle Nazioni. E’ la fiducia che ogni Stato ripone nei trattati internazionali. E’ il valore delle promesse fatte agli Stati di piccole dimensioni, ai quali integrità ed indipendenza devono essere rispettate e garantite. E’ il principio di uguaglianza degli Stati da un lato, o l’obbligo che incombe sulle piccole potenze di accettare i vincoli di servitù dall’altro. In una parola, è la moralità internazionale che è in gioco. Avere le firme apposte ad un Trattato vale solo quando le potenze firmatarie hanno un interesse personale, diretto e immediato in gioco?
Nessuna sottigliezza può cambiare il problema o spostare i motivi della discussione. E’ in tutta sincerità che indirizzo queste considerazioni all’Assemblea. Nel momento in cui il mio popolo è minacciato di sterminio, quando il supporto della Lega può parare il colpo finale, mi è concesso di parlare con tutta franchezza, senza reticenze, in tutta la schiettezza richiesta dalle regola di uguaglianza tra tutti gli Stati membri della Lega?
A parte il Regno del Signore non c’è su questa terra una nazione che sia superiore a qualsiasi altra. Se dovesse accadere che un governo forte ritenga di poter distruggere impunemente un popolo debole, allora giunge il momento per le persone deboli di fare appello alla Lega delle Nazioni per emettere la sua sentenza in tutta libertà. Dio e la storia ricorderanno il vostro giudizio.
Assistenza rifiutata
Ho sentito affermare che le sanzioni inadeguate già applicate non hanno raggiunto il loro scopo. In nessun momento, e in nessuna circostanza possono sanzioni formulate come volutamente inadeguate, intenzionalmente mal applicate, fermare un aggressore. Questo non è un caso di impossibilità a fermare un aggressore, ma di rifiuto nel fermare l’aggressore. Quando l’Etiopia ha chiesto e chiede di essere aiutata finanziariamente, fu questa una misura impossibile da applicare, mentre l’assistenza finanziaria della Lega è stata concessa, anche in tempi di pace, a due paesi ed esattamente due paesi che hanno rifiutato di applicare sanzioni contro l’aggressore?
Di fronte a numerose violazioni da parte del governo italiano di tutti i trattati internazionali che proibiscono il ricorso alle armi e l’uso di barbari metodi di guerra, è mio dovere doloroso sottolineare che l’iniziativa oggi è stata presa al fine di aumentare le sanzioni. Questa iniziativa non significa in pratica l’abbandono dell’Etiopia all’aggressore? Proprio alla vigilia del giorno in cui stavo per tentare uno sforzo supremo per la difesa del mio popolo davanti a questa Assemblea, questa iniziativa non privava forse l’Etiopia di una delle sue ultime chance di riuscire a ottenere il sostegno e la garanzia degli Stati Membri? È questa la guida che la Società delle Nazioni e ciascuno degli Stati Membri hanno il diritto di attendersi dalle grandi Potenze quando affermano il loro diritto e loro dovere di guidare l’azione della Lega? Confrontandosi con l’aggressore davanti al fatto compiuto, vogliono gli Stati creare il terribile precedente di inchinarsi davanti alla forza?
La vostra Assemblea ha senza dubbio prima di questo deciso le proposte per la riforma del Patto e per rendere più efficace la garanzia della sicurezza collettiva. E’ l’alleanza che ha bisogno di riforme? Quali interventi possono avere valore se la volontà di metterli in pratica manca? E’ la moralità internazionale che è in gioco e non gli articoli della Convenzione. A nome del popolo etiope, membro della Società delle Nazioni, chiedo all’Assemblea di adottare tutte le misure adeguate per garantire il rispetto del Patto. Rinnovo la mia protesta contro le violazioni dei trattati di cui il popolo etiope è stato vittima. Dichiaro di fronte al mondo intero che l’Imperatore, il Governo e il popolo dell’Etiopia non si piegherà davanti alla forza; che manterrà tutti i suoi propositi e che userà tutti i mezzi in suo potere per assicurare il trionfo del diritto e il rispetto del Patto.
Chiedo alle cinquantadue nazioni, che hanno dato al popolo etiope la loro promessa di aiuto nella resistenza contro l’aggressore, cosa siete disposti a fare per l’Etiopia? E le grandi potenze che hanno promesso la garanzia della sicurezza collettiva agli Stati di piccole dimensioni su cui pesa la minaccia di subire un giorno il destino dell’Etiopia, quali misure intendono adottare?
Rappresentanti del mondo sono venuto a Ginevra per condividere con voi la più dolorosa delle funzioni di un capo di Stato. Quale risposta dovrò portare al mio popolo?