Pepe Mujica rappresenta un simbolo di un mondo tanto diverso quanto possibile. Da guerrigliero a presidente del suo Uruguai. Un Presidente fuori dal comune che del suo stipendio di 8mila euro conservava per sé solo 800 euro, che ha rifiutato di abitare nel palazzo presidenziale, che oggi vive una piccola fattoria a Rincón del Cerro, alla periferia di Montevideo e che ha ancora come macchina un Maggiolino dell’87.
Mujica è una rottura storica e culturale che segna una differenza rispetto alla realtà dominante. Con la sua pratica quotidiana ha dimostrato che si può andare oltre i discorsi demagogici e buonisti per rendere realtà l’idea meravigliosa di un mondo diverso, di una vita che mette al centro la felicità e non il consumo, che preferisca il tempo libero al lavoro continuo, che si accontenti del necessario per non aspirare all’eterna creazione del surplus.
Le parole di Pepe, la sua profonda diversità, la sua dolce speranza e la sua forza, sono oggi una realtà che molti provano a far dimenticare. In questo discorso, che è rimasto alla storia come il “discorso della felicità”, c’è tutta la potenza di un messaggio semplice e rivoluzionario che fa sognare ancora e che potrebbe davvero salvare l’uomo, il pianeta e la società, riscoprendo l’umanità e la socialità come valori fondamentali per un sistema nuovo, più giusto, più libero e più felice.
“Ringrazio gli organismi e le autorità provenienti da tutte le latitudini. Molte grazie anche al popolo brasiliano e alla sua Presidente, Dilma Rousseff. Ringrazio la buona fede che, sicuramente, hanno manifestato tutti gli oratori che mi hanno preceduto.
Come governanti, siamo l’espressione dell’intima volontà di avallare tutti gli accordi che questa nostra, povera, umanità possa sottoscrivere. Tuttavia, permettiamo a noi stessi di farci qualche domanda a voce alta.
Per tutto il pomeriggio si è parlato di sviluppo sostenibile, di togliere le immense masse dalla povertà. Ma cosa aleggia nelle nostre menti? Forse l’attuale modello di sviluppo e di consumo delle società ricche? Mi faccio questa domanda: che succederebbe a questo pianeta se gli indiani possedessero la stessa proporzione di automobili per famiglia che hanno i tedeschi? Quanto ossigeno ci rimarrebbe da respirare?
Sarò più chiaro: il mondo ha oggi gli elementi naturali per fare in modo che sette o otto milioni di persone possano avere lo stesso livello di consumo e di spreco che hanno le più opulente società occidentali? Sarà mai possibile? O dovremo forse, un giorno o l’altro, cambiare tipo di discussione?
Perché abbiamo creato un civiltà, quella in cui viviamo, figlia del mercato, figlia della concorrenza e che ha generato un progresso materiale portentoso ed esplosivo. Ma ciò che è nato come economia di mercato, è diventato società di mercato. E ci ha offerto questa globalizzazione, che significa doversi occupare per tutto il pianeta.
Stiamo governando la globalizzazione o è la globalizzazione a governarci? È possibile parlare di solidarietà e di unione in un’economia basata su una concorrenza spietata? Fino a dove arriva la nostra fratellanza?
Quello che dico non vuol negare l’importanza di questo evento. Al contrario: la sfida che abbiamo davanti è di una magnitudo di carattere colossale e la grande crisi non è ecologica, è politica. Oggi l’uomo non governa le forze che ha scatenato, ma sono quelle forze che governano l’uomo e la nostra vita.
Perché non siamo venuti al mondo per svilupparci soltanto, così, in termini generali, ma veniamo alla vita per cercare di essere felici. Perché la vita è corta e se ne va. E nessun bene vale come la vita, questo è elementare! Però se la vita mi scappa via, lavorando e lavorando per consumare di più, allora la società del consumo ne è il motore.
Perché in definitiva, se il consumo si paralizza o si blocca, si rallenta l’economia, e se si rallenta l’economia appare il fantasma della stagnazione per ognuno di noi. Ma è proprio l’iperconsumo che sta aggredendo il pianeta, e quell’iperconsumo genera cose che durano poco, perché bisogna vendere molto.
E allora una lampadina elettrica non può durare più di 1000 ore accesa, però esistono lampadine che possono durare 100mila–200mila ore accese! Però non si possono produrre perché il problema è il mercato, perché dobbiamo lavorare e sostenere una civiltà dell’usa e getta, e così ci troviamo in un circolo vizioso.
Questi sono problemi di carattere politico che ci stanno indicando che è ora di iniziare a lottare per un’altra cultura. Non si tratta di voler ritornare all’uomo delle caverne, né di erigere un monumento al passato, e tuttavia non possiamo continuare ad essere indefinitamente governati dal mercato, ma dobbiamo governare noi il mercato.
Per questo dico che il problema è di carattere politico. Gli antichi pensatori – Epicuro, Seneca, gli Aymara – dicevano: “Povero non è colui che possiede poco; povero è, in realtà, colui che ha infinitamente bisogno di molte cose, colui che desidera, desidera, desidera, ancora e ancora”. Questa è una chiave di lettura di carattere culturale.
Voglio dunque salutare lo sforzo, gli accordi che si stringono e, come Presidente, accompagnerò tutto questo. E li appoggerò, come governante. So che alcune delle cose che sto dicendo “stridono”, ma dobbiamo renderci conto che la crisi dell’acqua e dell’aggressione all’ambiente non sono una causa. La causa è il modello di civiltà che abbiamo costruito e ciò che dobbiamo rivedere è il nostro modo di vivere.
Appartengo ad un piccolo paese molto ben dotato di risorse naturali per vivere. Nel mio paese vivono poco più di 3 milioni di persone e ci sono 13 milioni di vacche, delle migliori al mondo. E 10 milioni di capre stupende. Il mio paese è esportatore di cibo, latticini, carne. È un territorio pianeggiante con quasi il 90% del territorio fertile.
I miei compagni lavoratori hanno lottato molto per le otto ore di lavoro e adesso stanno per ottenerne sei! Però chi ha le sei ore, si trova un altro lavoro, e quindi lavora più di prima. E perché? Perché deve pagare una serie di rate: per la moto, l’automobile. E così paga e paga rate finché si ritrova essere vecchio e reumatico, come me, a cui se ne è andata la vita.
Allora viene da chiedersi: è questo il destino della vita umana? Queste cose che dico sono molto elementari. Lo sviluppo non può andare contro la felicità, ma deve essere a favore della felicità umana, dell’amore sulla Terra, delle relazioni umane, delle cure ai figli, dell’avere amici, dell’avere il necessario. Proprio così, perché il tesoro più importante che abbiamo è la felicità. Quando lottiamo per l’ambiente, il primo elemento dell’ambiente naturale si chiama “felicità umana”. Grazie.”