Rosa Luxemburg è stata una donna che con la sua vita, il suo impegno, la sua forza culturale, con la sua carica carismatica, con il suo animo rivoluzionario e mai remissivo, ha segnato la storia dell’Europa.
Il suo nome troppo spesso è stato tralasciato e nascosto nelle pieghe delle storia. Il suo impegno è stato quasi dimenticato. La sua figura è stata costretta all’ombra perché ha una carica rivoluzionaria potente, quella di una donna che non si arrende, che non si piega alle ingiustizie e che non chinano il capo davanti alle ingiustizie anche quando sono protette dalla legge.
Il discorso che riportiamo oggi è quello che questa donna meravigliosa tenne davanti al tribunale di Francoforte nel febbraio del 1914, che l’accusava di incitamento alla diserzione. Nelle sue parole c’è tutta la forza di una donna in lotta, tutta la dirompente energia di una rivoluzionaria del suo tempo, tutta la caparbietà di chi non si arrende.
“I miei difensori hanno giuridicamente chiarito in modo esauriente gli elementi di fatto dell’accusa nella loro futilità. Vorrei chiarire quindi l’accusa sotto un altro punto di vista. Tanto nella arringa odierna del procuratore di stato quanto nella sua accusa scritta ha una parte importante non soltanto il tenore letterale delle mie espressioni incriminate, ma ancor più la chiosa e la tendenza che avrebbe dovuto essere inerente a queste parole. Ripetutamente e con il massimo vigore è stato rilevato dal procuratore di stato ciò che secondo il suo parere io avrei voluto e saputo, allorché facevo le mie dichiarazioni in quelle riunioni. Ora, nei riguardi del momento psicologico interno del mio dire, sulla mia coscienza, nessuno può essere più competente di me e più di me in condizione di dare il chiarimento più completo e di fondo.
E io voglio premettere un rilievo: ben volentieri sono disposta a dare un totale chiarimento al procuratore di stato e a loro, signori giudici. Per eliminare il fattore principale, vorrei spiegare come ciò che il procuratore di stato, appoggiato dalle dichiarazioni dei suoi principali testimoni, ha descritto come corso delle mie idee, come mie intenzioni e miei sentimenti, non sia che una caricatura piatta, priva di spirito, tanto dei miei discorsi come in generale del metodo di agitazione socialdemocratico. Sentendo l’esposizione del procuratore di stato mi veniva da ridere interiormente e pensavo: qui abbiamo di nuovo un esempio classico di come una cultura normale sia insufficiente a comprendere il pensiero socialdemocratico, il nostro mondo ideale in tutta la sua complessità, sottigliezza scientifica e profondità storica quando l’appartenenza a una classe sociale ne impedisce la visione. Se loro, signori giudici, avessero chiesto al più semplice, illetterato operaio delle migliaia che frequentano le mie riunioni, avrebbero ottenuto da lui un quadro ben differente, avrebbero tratto ben altra impressione dei miei discorsi. Sì, i semplici uomini e donne del popolo lavoratore sono in grado di afferrare il nostro pensiero, che invece nel cervello di un procuratore di stato prussiano si riflette come in uno specchio curvo in forma di caricatura. Voglio adesso dimostrare ciò più minutamente in alcuni punti.
Il procuratore di stato ha ripetuto varie volte che io avrei “aizzato smodatamente” le migliaia di miei ascoltatori, già prima di quella frase incriminata che avrebbe rappresentato il culmine del mio discorso. Io dico: signor procuratore, noi socialdemocratici non aizziamo nessuno! Cosa vuol dire “aizzare”? Ho forse tentato di inculcare agli uditori qualcosa come questo: se voi giungerete in guerra come tedeschi in paese nemico, per esempio in Cina, fate in modo che nessun cinese dopo cento anni osi guardare un tedesco di traverso? Se avessi parlato così, si potrebbe parlare di aizzamento. Ho forse tentato di ispirare nelle masse l’oscurantismo nazionale, lo sciovinismo, il disprezzo e l’odio per altre razze e popoli? Anche questo sarebbe stato certamente un aizzamento.
Ma io non ho parlato così e così non parla mai un socialdemocratico esperto. Quello che io ho fatto in quelle riunioni di Francoforte e quello che noi socialdemocratici facciamo sempre con la parola e con gli scritti è di illuminare le masse operaie, renderle coscienti dei loro interessi di classe e dei loro compiti storici, far loro presenti le grandi linee dello sviluppo storico, le tendenze dei rivolgimenti economici politici e sociali che si compiono in seno alla nostra odierna società, che porteranno necessariamente a far sì che a un certo momento della evoluzione l’attuale ordinamento sociale venga eliminato e sostituito dal superiore ordinamento socialistico. E così noi, ponendoci sul terreno delle prospettive storiche che ha un’efficacia mobilitante, agitiamo e solleviamo anche la vita morale delle masse. Partendo dallo stesso grande punto di vista, noi procediamo – in quanto per noi socialdemocratici tutto porta a una concezione della vita armonica, coerente, posta su basi scientifiche nella nostra agitazione contro la guerra e contro il militarismo. E se il signor procuratore coi suoi meschini testimoni principali non concepisce tutto ciò che come un semplice lavoro di aizzamento, questa concezione rozza e semplicistica è dovuta unicamente e soltanto alla incapacità del procuratore di stato di pensare in termini socialdemocratici.
Il procuratore di stato ha inoltre ripetutamente parlato dei miei pretesi accenni all'”assassinio dei superiori”. Questi nascondevano, ma tutti comprendevano, l’accenno all’uccisione degli ufficiali, chiarendo così in modo particolare la mia anima nera e la pericolosità dei miei intendimenti. Io li prego di ammettere per un momento persino l’esattezza delle espressioni che mi sono state messe in bocca; in questo caso loro debbono riconoscere, dopo qualche riflessione, che proprio su questo punto il procuratore nel lodevole tentativo di dipingermi il più nero che fosse possibile – è andato completamente fuori strada. Infatti quando e contro quali “superiori” avrei incitato all’assassinio? La stessa accusa asserisce che io avrei raccomandato l’introduzione in Germania del sistema della milizia; avrei indicato come l’elemento essenziale di questo sistema, il dovere di consegnare alle truppe perché le portino a casa, le armi personali come avviene in Svizzera. E a ciò – notare: a ciò – avrei aggiunto che le armi potevano poi andare anche in un senso diverso di quello gradito ai governanti. E’ quindi chiaro: il procuratore mi accusa di aver incitato all’assassinio non dei superiori dell’attuale sistema militare tedesco, bensì dei superiori della futura milizia tedesca! La nostra propaganda in favore del sistema della milizia viene combattuta al massimo e nell’accusa mi viene ascritta come delitto. E in pari tempo il procuratore di stato si sente indotto a occuparsi della vita degli ufficiali di questo sistema della milizia così rigorosamente proibito, che io vado mettendo in pericolo. Ancora un passo e il signor procuratore, nel fervore dello scontro, eleverà contro di me l’accusa di incitare ad attentati contro il Presidente della futura repubblica tedesca!
Che cosa ho detto in realtà del cosiddetto assassinio dei superiori? Qualcosa di assolutamente diverso! Nel mio discorso avevo accennato al fatto che l’attuale militarismo viene solitamente motivato dai suoi paladini ufficiali con la frase della necessaria difesa della patria. Se questo interesse della patria fosse inteso onestamente e sinceramente, allora – così dicevo – le classi dominanti non avrebbero altro da fare che mettere in pratica la vecchia rivendicazione programmatica della socialdemocrazia, il sistema della milizia. Poiché soltanto questa sarebbe l’unica sicura garanzia della difesa della patria, in quanto solamente il popolo libero, che entra in campo contro il nemico per propria decisione, è un baluardo sufficiente e fidato per la libertà e l’indipendenza della patria. Soltanto allora si potrebbe dire “Cara patria puoi stare tranquilla”. Perché dunque, chiedevo io, i paladini ufficiali della patria non vogliono sentir parlare di questo unico sistema efficace di difesa? Soltanto perché a essi non importa né in prima né in seconda linea della difesa della patria, quanto delle guerre di conquista imperialistica per le quali la milizia certo non serve. In più le classi dominanti hanno timore di mettere le armi in mano al popolo lavoratore, perché la cattiva coscienza degli sfruttatori fa loro temere che le armi potrebbero andare anche in un senso non gradito ai governanti.
Così quello che io formulavo quale timore delle classi governanti, mi viene imputato dal procuratore di stato, sulla base della parola dei suoi impacciati testimoni principali, come mio asserto personale. È questa una nuova dimostrazione di quale guazzabuglio abbia causato nel suo cervello l’incapacità assoluta di seguire il corso del pensiero socialdemocratico.
Del pari assolutamente falsa è l’affermazione dell’accusa che io avrei raccomandato l’esempio olandese, secondo il quale nell’esercito coloniale il soldato è libero di abbattere il superiore che lo maltratti. In realtà, quella volta parlando in merito al militarismo e al maltrattamento dei soldati, citavo il nostro indimenticabile Bebel ricordando come uno dei capitoli più importanti della sua attività sia stato la lotta in seno al Reichstag contro il maltrattamento dei soldati. Per illustrare l’argomento citai allora vari discorsi di Bebel tratti dai resoconti stenografici delle sedute al Reichstag – i quali, per quanto mi consta, sono legalmente permessi. Fra gli altri, quello del 1893 sui costumi dell’esercito coloniale olandese. Loro vedono, miei signori, come anche qui il signor procuratore nel suo zelo abbia preso un abbaglio: la sua accusa in ogni caso non doveva essere contestata a me ma a un altro.
Vengo ora al punto più rilevante dell’accusa. Il procuratore di stato ricava il suo attacco principale, cioè l’affermazione che nel discorso incriminato io avrei incitato i soldati in caso di guerra a non sparare sul nemico contrariamente agli ordini, da una deduzione che gli sembra evidentemente di inconfutabile forza probante e di logica stringente. Egli deduce quanto segue: poiché io facevo dell’agitazione contro il militarismo, poiché io volevo impedire la guerra, non potevo evidentemente seguire altra via, non potevo avere in vista altro mezzo efficace che quello di intimare direttamente ai soldati: se vi si ordina di sparare, non sparate! Davvero signori giudici: quale conclusione convincente, quale logica stringente!
Tuttavia mi si permetta di dichiarare: questa logica e questa conclusione risultano dalla concezione del procuratore di stato, non dalla mia, non da quella della socialdemocrazia. A questo punto li prego di prestare particolare attenzione. Io dico: la conclusione che l’unico mezzo efficace per evitare le guerre consista nel rivolgersi direttamente ai soldati e di incitarli a non sparare – questa conclusione è soltanto l’altra faccia di quella concezione secondo cui, fintantoché il soldato obbedisce agli ordini dei suoi superiori, tutto nello Stato è ben sistemato, secondo cui – per dirla in breve – il fondamento del potere statale e del militarismo è rappresentato dall’obbedienza cadaverica del soldato. Questa concezione del signor procuratore trova un armonioso completamento ad esempio in quel discorso pubblicato ufficialmente dal massimo signore della guerra, secondo il quale il kaiser, ricevendo il re dei greci a Postdam il 6 novembre dello scorso anno, ha detto che la vittoria dell’esercito greco dimostra “che i princìpi seguiti dal nostro comando generale e dalle nostre truppe, se esattamente applicati, portano sempre alla vittoria”. E comando generale con i suoi “principi” e il soldato con la sua obbedienza cadaverica – ecco le basi della condotta della guerra e la garanzia della vittoria. Ora, noi socialdemocratici non siamo precisamente di questa opinione. Noi pensiamo piuttosto che per l’insorgere e per l’esito delle guerre non siano decisivi soltanto l’esercito, i “comandi” dall’alto e l’obbedienza cieca in basso, ma che sia la grande massa del popolo lavoratore che decide e che deve decidere. Noi siamo d’opinione che le guerre possono venire condotte solo quando e solo finché la massa del popolo lavoratore o le fa con entusiasmo, perché le ritiene cosa giusta o necessaria, o almeno le sopporta pazientemente. Quando invece la grande maggioranza della popolazione lavoratrice arriva a convincersi – e svegliare in essa questo convincimento, questa coscienza è proprio il compito che ci poniamo noi socialdemocratici – quando, dico, la maggioranza del popolo giunge a convincersi che le guerre sono un fenomeno barbaro, profondamente immorale, reazionario e nemico del popolo, allora le guerre sono diventate impossibili – e il soldato obbedisca pure in principio ai comandi dei superiori! Secondo il concetto del procuratore di stato la parte che fa la guerra è l’esercito, secondo il nostro, è il popolo. Questo ha da decidere se le guerre vanno fatte o no. È alla massa degli uomini e delle donne che lavorano, vecchi e giovani, che spetta decidere circa l’essere o non essere del militarismo attuale, e non a quella piccola particella di questo popolo che sta nel cosiddetto abito del re.
E se ho detto questo, ho contemporaneamente una classica testimonianza in mano, che questa è in realtà la mia, la nostra concezione.
Per caso sono in grado di rispondere alla domanda del procuratore di stato di Francoforte: chi avessi inteso allorché, in un mio discorso tenuto a Francoforte, dissi: “noi non facciamo questo”. E 17 aprile 1910 ho parlato qui, al Circo Schumann, davanti a circa 6.000 persone, sulla lotta per il diritto di voto in Prussia – come sanno, allora la nostra lotta era al suo apice e trovò nel testo stenografico di quel discorso a p. 10 il seguente passo:
“Egregi ascoltatori! Io dico: nell’attuale lotta per il diritto di voto, come in tutte le questioni politiche importanti del progresso in Germania, siamo tutti soli, abbandonati a noi stessi. Ma chi siamo “noi”? “Noi” siamo i milioni di proletari e proletarie di Prussia e Germania. Sì, noi siamo più di un numero. Noi siamo i milioni di coloro del cui lavoro manuale vive la società. E basta che questo semplice fatto metta radici nella coscienza delle più larghe masse del proletariato tedesco, perché venga infine il momento che in Prussia sia dimostrato a reazione imperante che il mondo può ben fare a meno degli junker dell’Elba orientale, e anche dei conti del Centro, e dei consiglieri segreti e occorrendo anche dei procuratori di stato (agitazione), ma che non può esistere ventiquattro ore, se gli operai incrociano le braccia”.
Loro vedono che io esprimo chiaramente quale sia secondo il nostro modo di vedere il centro di gravità della vita politica e dei destini dello Stato: nella coscienza, nella volontà chiaramente formata, nella decisione della grande massa lavoratrice. E proprio così pure concepiamo la questione del militarismo. Se la classe operaia giunge alla maturità e alla decisione di non permettere più guerre, le guerre sono diventate impossibili.
Ma io ho ancora altre dimostrazioni del fatto che noi comprendiamo così e non in altro modo l’agitazione antimilitaristica. Io debbo stupirmi: il procuratore di stato si dà grande pena per distillare con interpretazioni, ipotesi, deduzioni arbitrarie dalle mie parole in qual guisa io abbia potuto pensare di agire contro la guerra. Aveva invece a disposizione materiale dimostrativo in quantità. Noi non conduciamo la nostra agitazione antimilitaristica nella segreta oscurità, nascostamente – no, alla più chiara luce della pubblicità. Da decenni la lotta contro il militarismo forma l’oggetto principale della nostra agitazione. Fin dalla vecchia Internazionale è oggetto di discussioni e voti di quasi tutti i congressi, come pure dei congressi del partito tedesco. Il procuratore di stato non avrebbe che da affondare le mani nella piena realtà della vita: in qualunque punto avesse afferrato, sarebbe sempre interessante. Non mi è possibile, sfortunatamente, esporre qui tutto l’ampio materiale relativo. Mi permettano tuttavia di citare l’essenziale.
Già il congresso di Bruxelles dell’Internazionale, nell’anno 1868, indica misure pratiche per impedire la guerra. Nella sua risoluzione è detto fra l’altro: “Che i popoli possono già attualmente limitare il numero delle guerre, opponendosi a coloro che le guerre fanno e dichiarano; “che questo diritto spetta in modo particolare alle classi operaie, che sono quasi le sole che vengono chiamate al servizio militare e che per questa ragione sono le sole che possano dare una sanzione; “che a tale scopo esse hanno a disposizione un mezzo pratico, legale e di immediata realizzazione; “che la società non potrebbe infatti continuare a vivere se la produzione venisse a cessare per qualche tempo. I lavoratori-produttori non avrebbero quindi che da cessare di produrre per rendere impossibili ai governi personali e dispotici di porre in atto le loro imprese; “il congresso di Bruxelles dell’Associazione internazionale dei lavoratori dichiara di protestare energicamente contro la guerra e invita tutte le sezioni dell’associazione nei singoli paesi, come pure tutte le società operaie e le organizzazioni operaie senza distinzione, ad agire con il massimo impegno onde evitare una guerra fra popolo e popolo che, al giorno d’oggi, in quanto guerra fatta fra lavoratori, quindi fratelli e cittadini, sarebbe da ritenersi una guerra civile.
“Il congresso raccomanda ai lavoratori specialmente la sospensione del lavoro nel caso che nei loro rispettivi paesi scoppiasse una guerra”
Lascio da parte le altre numerose risoluzioni della vecchia internazionale e passo al congresso della nuova Internazionale. E il congresso di Zurigo del 1893 dichiarava:
“La posizione dei lavoratori nei confronti della guerra è nettamente definita dalle conclusioni del congresso di Bruxelles sul militarismo. La socialdemocrazia rivoluzionaria internazionale deve opporsi in tutti i paesi e con tutte le sue forze alle brame schiavistiche della classe dominante; rinsaldare sempre più fermamente il legame di solidarietà fra i lavoratori di tutti i paesi; operare senza tregua per l’eliminazione del capitalismo che divide l’umanità in due campi nemici e aizza i popoli gli uni contro gli altri. Con il superamento del dominio di classe scompare anche la guerra. La caduta del capitalismo è la pace del mondo”.
Il congresso di Londra del 1896 dichiara:
“Soltanto la classe operaia può avere la seria volontà e conseguire il potere di stabilire la pace nel mondo. A tale scopo chiede:
1. Contemporanea abolizione degli eserciti permanenti in tutti gli Stati e istituzione dell’armamento popolare.
2. Istituzione di un tribunale arbitrale internazionale, le cui decisioni abbiano forza di legge.
3. Decisione definitiva su guerra o pace direttamente da parte del popolo, nel caso che i governi non intendessero accettare la decisione del tribunale arbitrale”.
Il congresso di Parigi del 1900 consiglia specialmente come mezzo pratico di lotta contro il militarismo: “Che i partiti socialisti intraprendano ovunque l’educazione e la organizzazione dei giovani allo scopo di combattere il militarismo e proseguano nello sforzo con il massimo fervore”.
Mi permettano ancora di riportare un passo importante della risoluzione del congresso di Stoccarda del 1907, nel quale è raccolta con grande plasticità tutta una serie di misure pratiche da prendersi da parte della socialdemocrazia nella lotta contro la guerra. E’ detto:
“In realtà, a partire dal congresso internazionale di Bruxelles il proletariato ha intrapreso le più svariate forme di azione nella sua lotta instancabile contro il militarismo con crescente energia e successo, rifiutando i mezzi per l’armamento di terra e di mare, tentando di democratizzare l’organizzazione militare, nell’intento di evitare lo scoppio di guerre o di farle cessare, nonché in quello di sfruttare gli squilibri della società provocati dalla guerra a vantaggio della liberazione della classe operaia: così specialmente l’accordo dei sindacati inglesi e francesi dopo l’incidente di Fascioda, per assicurare la pace e per il ristabilimento di amichevoli relazioni fra Francia e Inghilterra; l’atteggiamento dei partiti socialisti al parlamento tedesco e a quello francese nel corso della crisi marocchina; le manifestazioni avvenute allo stesso scopo a opera dei socialisti francesi e tedeschi; l’azione comune dei socialisti austriaci e italiani che si riunivano a Trieste per evitare un conflitto fra i due Stati; inoltre, l’intervento energico delle masse operaie socialiste svedesi al fine di impedire un attacco alla Norvegia; da ultimo l’eroico sacrificio e le lotte di massa degli operai e dei contadini socialisti di Russia e Polonia per opporsi alla guerra scatenata dallo zarismo, per farla cessare e per utilizzare la crisi per la liberazione dei paesi e delle classi lavoratrici. Tutti questi sforzi testimoniano la potenza crescente del proletariato e il suo crescente impulso ad assicurare il mantenimento della pace mediante interventi decisivi”.
E ora io chiedo: trovano lor signori in tutte queste risoluzioni e conclusioni anche una sola intimazione che voglia significare che noi ci mettiamo davanti ai soldati e gridiamo loro: non sparate! E perché? Forse perché temiamo le conseguenze di una simile agitazione, gli articoli punitivi? Oh, saremmo gente misera e dappoco se per paura delle conseguenze tralasciassimo qualche cosa che avessimo riconosciuta necessaria e utile. No, noi non lo facciamo perché diciamo: quelli che sono nel cosiddetto abito del re sono soltanto una parte della popolazione lavoratrice e se questa raggiunge la necessaria coscienza che la guerra è riprovevole e dannosa al popolo, allora anche i soldati comprenderanno (da soli), senza le nostre intimazioni, quel che devono fare nel caso specifico.
Loro vedono, signori, come la nostra agitazione contro il militarismo non sia tanto povera e semplicistica come la immagina il signor procuratore. Abbiamo a nostra disposizione molti e diversi mezzi d’azione: educazione dei giovani – e noi questo mezzo applichiamo con energia e risultato duraturo, nonostante tutte le difficoltà che ci vengono frapposte – propaganda in favore del sistema della milizia, riunioni di massa, dimostrazioni di piazza…. E per ultimo: guardino all’Italia. Come hanno risposto laggiù i lavoratori coscienti all’avventura tripolina? Con uno sciopero dimostrativo di massa, che è stato condotto nel modo più brillante. E come ha reagito di conseguenza la socialdemocrazia tedesca? Il 12 novembre 1912 gli operai berlinesi votavano in dodici assemblee una risoluzione nella quale ringraziavano i compagni italiani per lo sciopero di massa.
Già, lo sciopero di massa! dice il procuratore di stato. E proprio qui che egli crede di avermi afferrata di nuovo, nelle mie pericolosissime idee di distruzione di governi. Il procuratore di stato basava oggi la sua accusa specialmente insistendo sulla mia opera di agitazione per lo sciopero di massa, al quale egli legava le più spaventose prospettive di rovesciamento violento, quali possono esistere soltanto nella fantasia di un procuratore di stato prussiano. Signor procuratore di stato, se io potessi presupporre in lei la minima possibilità di afferrare una più nobile concezione storica, il nesso delle idee socialdemocratiche, le spiegherei, come faccio con successo in ogni riunione popolare, che gli scioperi di massa in quanto rappresentano un momento determinato nella evoluzione delle condizioni attuali, non vengono “fatti”, così come non si “fanno” le rivoluzioni. Gli scioperi di massa sono una tappa della lotta di classe, alla quale ci porta a ogni modo con necessità naturale il nostro sviluppo attuale. Tutto il nostro compito, della socialdemocrazia, a questo riguardo consiste nel rendere chiara alla coscienza della classe operaia questa tendenza dello sviluppo affinché i lavoratori siano all’altezza dei loro compiti, una massa di popolo educata, disciplinata, matura, decisa e attiva.
Anche qui, come loro vedono, quando il procuratore di stato nell’accusa agita il fantasma dello sciopero di massa quale egli lo concepisce, vuol punirmi in realtà per i suoi pensieri e non per i miei.
Ora voglio concludere. Una cosa soltanto vorrei rilevare ancora. Nella sua esposizione, il signor procuratore ha dedicato molta attenzione specialmente alla mia piccola persona. Mi ha descritta come un grande pericolo per la sicurezza dell’ordine statale, non ha nemmeno disdegnato di scendere a un livello volgare e mi ha chiamata “Rosa rossa”. Ha anche osato insinuare sospetti nei riguardi del mio onore personale, esponendo il timore che io fuggissi nel caso la sua proposta di condanna venisse accolta. Signor procuratore, non mi degno di rispondere per la mia persona a tutti i suoi attacchi. Ma una cosa voglio dirle: Lei non conosce la socialdemocrazia. (Il presidente, interrompendo: “Noi non possiamo ascoltare qui un discorso politico”). Nel 1913 molti suoi colleghi hanno lavorato col sudore alla fronte, in modo da riversare sulla nostra stampa un totale di 60 mesi di carcere. Ha forse lei sentito dire che uno solo dei condannati abbia tentato la fuga per timore del castigo? Crede lei che questa infinità di condanne abbia portato anche un solo socialdemocratico a vacillare, oppure lo abbia scosso nell’adempimento del suo dovere? Oh no, la nostra opera se ne ride di tutti i raggiri dei suoi paragrafi punitivi, essa cresce e prospera nonostante tutti i procuratori di stato!
Per ultimo, ancora una parola soltanto sull’attacco inqualificabile che ricade sul suo autore. Il procuratore di stato ha detto testualmente – me lo sono notato – che egli propone l’arresto immediato perché “sarebbe inconcepibile che l’accusata non tentasse la fuga”.
Ciò vuol dire in altre parole: se io, procuratore di stato, avessi da scontare un anno di carcere, io tenterei la fuga. Signor procuratore, le credo, lei fuggirebbe. Un socialdemocratico non fugge. Egli conferma i suoi atti e se ne ride dei suoi castighi. E adesso mi condannino.”