di Ciccio Capozzi
”TRE MANIFESTI A EBBING-MISSOURI”. In quel di Ebbing, Missouri, nel profondo nulla campagnolo dell’America, Mildred “si ostina” a chiedere giustizia per la sua figlia stuprata e uccisa. Perciò a sue spese monta tre grandi manifesti all’ingresso del paese. Vi saranno conseguenze.
E’ un film (UK-USA, 17) decisamente particolare. Il suo regista e sceneggiatore, Martin McDonagh, inglese di Londra, ma di origini irlandesi, viene dal teatro dove ha conseguito importanti e continuativi successi. Si è dato al cinema: il suo primo Corto, che era di fiction, gli valse l’Oscar nella categoria nel 2006; poi ha diretto altri film, non memorabili. Ma con questo ha fatto, artisticamente, il botto. Ha dichiarato di aver scelto una protagonista femminile, addirittura già pensando alla grande Frances McDormand, proprio per evitare il solito, trito vengeance movie, quel sottogenere del film d’azione basato su una vendetta. Genere, peraltro, che lui sarebbe stato tranquillamente in grado di affrontare, come ci mostra la sua filmografia. Perché la caratteristica di questo cinematografaro venuto dal teatro, è che egli non obbedisce al cliché dell’intellettuale schifiltoso, tutto cerebrale e pippaiolo, ma sa sviluppare trame, personaggi e situazioni fuori da ogni schema prevedibile: qui ha fatto un’opera davvero diversa senza ostentazione.
La protagonista, splendida, già insignita del Golden Globe 18 per questo film, e in corsa per l’Oscar, è una tosta, che non recede dalla sua battaglia personale, contro quella che ritiene l’indifferenza delle forze dell’ordine. Il suo dolore per la perdita è assoluto, profondo e lancinante e poco appariscente: la trasforma in una furia e le mette contro l’intera comunità: ma lei continua su questa linea, con una forza ed un’energia ancora più tracimante. Come quando affronta fisicamente e con determinazione i ragazzotti della scuola del figlio che hanno espresso commenti offensivi nei confronti di lui. E tutto senza andare mai in escandescenze: solo un’attrice dall’intelligenza emotiva così intensa, attenta e flessibile poteva dare corpo a questo ruolo. La scelta del regista non poteva essere migliore. E non diventa un’eroina alla Q. Tarantino, che si batte katana alla mano, contro tutti: benché arrivi a compiere, quasi per disperazione, un gesto da capata, il suo percorso s’impiglia nelle ragnatele delle complessità dell’’esistenza, pure in un buco sperduto come Ebbing.
Anzi tale posto è stato scelto proprio per la sua paradigmaticità. Le relazioni sono così ravvicinate che non sembra possibile staccarsi l’uno dall’altro: ognuno è partecipe se non complice dell’altro. Ma non è questo il punto di vista adottato dal regista. A lui non interessa il problema della responsabilità nella sua flessione etico-intellettuale. A lui interessa scoprire gli strati di verità che si sovrappongono nei caratteri e nelle persone: tali che spesso sono ignoti perfino a loro stessi. Ognuno di loro è un universo problematico e particolare. Il regista è persona colta e di formazione europea: il suo modo di procedere narrativamente fa pensare a Dostoevskij.
Nel film i fatti incalzano: in parte indotti dai manifesti, ma in parte no. In particolare, prende sempre più forza il personaggio dello Sceriffo, interpretato da un potente e raffinato, contemporaneamente, Woody Harrelson, anch’egli Nominato ai Golden Globe 18. Ci viene mostrato prima come indifferente, ma poi si vede come la sua persona sia diversa da come appare istituzionalmente. Le sue Lettere, che sono di fatto addirittura e volutamente uno strumento letterario da '700 europeo o '800 vittoriano, scritte alla moglie, a quella madre in pena e al suo vice, che sembra pazzoide, fortemente immaturo e poco affidabile, mostrano dove sia la verità dei comportamenti, suoi e degli altri: o almeno una linea che ne dia più ravvicinata verosimiglianza. In queste, comunque, riesce ad apparire perfino sardonico. Esse danno un respiro diverso al film: sparigliano, confondono i fatti; e li riconnettono in un ordine nuovo, molto più articolato. Però sempre logico e sistematico. E fanno comprendere come siano il caso e il caos a determinare gli eventi. La soggettività razionale, e i sentimenti, possono a malapena, ex post, comprenderne gli effetti: ed è sempre difficile, se non impossibile, essere lucidi. E ciò è affermato senza sproloqui: ma facendo emergere una pallida intuizione di verità nei comportamenti fattuali dei protagonisti. In questo caso il vice, un altro attore premiato per questo ruolo ai Golden Globe 18, il bravo e multitasking Sam Rockwell, mezzo coatto e provocatorio, sempre sul filo del folle e del grottesco, ma provvisto di rude umanità e sostanziale onestà, prima nemico, poi a lei vicino, e Mildred. Come si evince dal finale aperto. La pregevole struttura narrativa è determinata da una sceneggiatura bellissima ed esemplare: che è stata premiata a Venezia 17. Dà gli spazi necessari ai fatti, ne coglie le contraddizioni con le interpretazioni banali che nell’immediato siamo portati ad attribuire: le destruttura, e ce li ripropone affidandosi sempre e solo al narrato. Pochissimo al parlato. Il che, detto di un commediografo, suona strano. Ma il teatro, più che alle parole in sé, come erroneamente si pensa, deve dare attenzione ai personaggi: alle sfumature e agli elementi di trasformazione in atto, costruiti attraverso i dialoghi. Qui invece, di assolutamente cinematografico, c’è l’uso degli spazi. Essi sono vasti, ma opprimenti.
La direzione della foto è di Ben Davis, che sappiamo, dalla sua filmografia, essere stato in grado di passare con eleganza e duttilità da toni intimisti a quelli fracassoni e iper colorati dei Marvel movies, sottolinea la sostanziale umbratilità di questo posto, ove i colori sono sempre smorti e cangianti. Inbal Weinberg, Production Designer (scenografo), ci offre una “riflessione” sui volumi fisici utilizzati attorno ai personaggi: solo lo Sceriffo appare “libero” e non condizionato dagli spazi in cui si muove: del resto è la persona più “libera” da pregiudizi, più aperta e conseguente. E’ un film che attraversa tematiche di ricca intellettualità in una narrazione stringente, drammatica: ma che sa aprirsi all’autoironia e a qualche spunto perfino comico.