In fila per il vaccino: "Speriamo ci facciano a cosa bbona..."

L'attesa dinanzi alla caserma Pepicelli

in fila per il vaccino speriamo ci facciano a cosa bbona
Benevento.  

Non vorrei essere qui, maledizione. Ho voglia di vaccinarmi, ma trovarmi tra tanti capelli bianchi mi mette a disagio. La carta d'identità è implacabile e non concede sconti: sono un sessantenne, mica lo nascondo. Magari non ci penso più di tanto, ma questa mattina la consapevolezza del tempo trascorso è diventata all'improvviso schiacciante.

Sono stato convocato per le 9, ma quando arrivo dinanzi alla caserma Pepicelli ci sono già una trentina di persone. Sono le 8.20, che diavolo ci fanno già qui? Hanno avuto la mia stessa idea, vabbè. Il numero cresce con il passare dei minuti, l'assembramento dinanzi al cancello rigorosamente chiuso è inevitabile. Indossiamo tutti la mascherina, ma di distanza di sicurezza neanche a parlarne. A meno che non si tratti di quella da mantenere, per evitare di essere investito, dalle auto che transitano lungo il viale Atlantici.

La noia sembra non finire mai, per fortuna non mancano alcuni antidoti. A parte il telefonino, l'incontro con qualche volto amico, come quello di un commissario di polizia che conosco da un quarto di secolo. “Anche tu qui?”, ci diciamo, ridendo di gusto. C'è un leggero ma palpabile senso di preoccupazione, le voci sono basse. “Ma tu non sei il conducente dell'autobus?”, esordisce, ad un tratto, un signore. E l'altro, che si vede riconosciuto, risponde che “lo era”. Adesso è in pensione, quella condizione alla quale non anelo perchè so che sarà complicata.

“Io l'ho già fatto, ho accompagnato mia moglie”, aggiunge un uomo che evidentemente rispetta i doveri coniugali ed è dotato di educazione. L'attesa è pesante, come fai a non riempirla senza discettare dei vaccini? Meglio questo o quello?, la pandemia ha determinato un processo di alfabetizzazione non solo virologica, epidemiologica e infettivologica, ma anche di comprensione dei meccanismi che sottendono la ricerca scientifica.

I pareri si sprecano, fino a quando dal gruppo non si alza una espressione perentoria: “La cosa importante è che ci fanno a cosa bbona...”. Di fronte a tanta saggezza, cosa volete che conti una marca piuttosto che un'altra? Sono le 9.15 quando viene finalmente permesso l'accesso all'ex scuola allievi dell'Arma, la ressa davanti al cancello permette ad alcuni furbetti di scavalcare la fila ed infilarsi alla faccia degli altri. Siamo italiani, che possiamo farci.

Un carabiniere, che nel frattempo è diventato il bersaglio incolpevole delle recriminazioni della folla, consegna un numerino. Il mio è il 46, il militare spiega con cortesia che il ritardo è stato causato da una modifica del percorso. E' delimitato dalla transenne, lo affrontiamo in fila come dei soldatini, mentre i volontari dell'Associazione nazionale della Polizia di Stato invitano tutti a non accalcarsi.

L'orologio corre per mezz'ora, finalmente metto piede all'interno. Qui è tutto più rapido: una sosta alla ricezione per la registrazione dei dati, poi il contatto con un medico e l'assegnazione dell'ambulatorio. A me tocca il 3, che insiste su un corridoio che continua ad affollarsi. Qualche minuto prima delle 10 sono seduto, con altri tre maschietti, in uno stanzone. “Spogliatevi e tenete rilassato il braccio indicato”, tuona una infermiera. Sembra un po' burbera, ma è velocissima. E in una trentina di secondi inocula a tutti il vaccino. Diamine se ci sa fare con le siringhe.

Ritira i documenti, ci spedisce nell'area osservazione. Ci ritroviamo in tanti, ognuno guarda l'altro per individuare possibili problemi, che, grazie al cielo, non esistono. Tutti dovremmo ritirare la ricevuta dell'avvenuta immunizzazione, ma difficoltà di connessione alla rete rendono vani gli sforzi dell'impiegato addetto. “Potete scaricarla dal sito sul quale vi siete prenotati”, afferma. Ci dà appuntamento per il 4 luglio, per la seconda dose. Quel giorno saranno passati circa altri tre mesi delle nostre vite. Quelle dei capelli bianchi: beato chi ce l'ha, i capelli.