di Franco Arminio
Al mio paese la terra trema sempre, terremoto a oltranza. Ora abbiamo un paese nuovo e un paese vecchio. Il paese nuovo è brutto, come tutti i paesi nuovi. Il paese vecchio è bello, perché il brutto è tutto concentrato nel nuovo. Allora il mio consiglio è di non fare paesi nuovi. Bisogna rifare il paese dov’era. Rifare il paese, non solo le case, un paese non è una somma di case. Rifare un paese dunque non è questione solo di architetti e urbanisti. Spesso i paesi nuovi danno la sensazione di essere un catalogo di materiali edili.
Torniamo indietro. Prima del paese nuovo ci sono le tende, poi i prefabbricati. Ci sono gli articoli dei giornali e i servizi televisivi, c’è la commozione delle prime ore, ci sono gli aiuti e le polemiche. I terremoti un poco si somigliano. I terremoti fanno cose strane, una casa cade e un’altra no. C’è chi muore sul colpo e chi resta incastrato con una trave sulla pancia, c’è chi ascolta gli aiuti, ma non ha la forza di farsi sentire. Mai bisogna dimenticare che il terremoto è un’irruzione improvvisa. E la tragedia nelle sue prime ore e nei primi giorni ha anche un effetto un poco euforizzante, almeno in chi non ha avuto lutti. Il terremoto è anche una faccenda di ruspe che fanno gli abbattimenti e poi di betoniere. Ci sono i ponteggi per le case pericolanti e poi le impalcature dei cantieri. Ci sono i piani di recupero, i piani di zona, insomma le carte dei tecnici. E poi ci sono gli stanziamenti, ci sono i governanti che nominano un commissario. C’è sempre una fase in cui arrivano i soldi ma i lavori ancora non cominciano. Poi c’è una fase in cui i lavori vanno a rilento perché gli stanziamenti sono finiti. Il terremoto apre anche spiragli, le persone non hanno più i loro divani, chi dorme in macchina sembra avere un tremore buono, l’arroganza è un poco dismessa.
In Italia nessuno ha mai pensato veramente alla prevenzione. I morti causati dai terremoti li mettiamo nel conto. In Italia ci sono due milioni di persone che vivono alle falde di un vulcano attivo. L’economia della catastrofe fa parte dei nostri giochi. Al mio paese molti pensano che solo un terremoto può riaccendere l’economia. È come se si riuscisse a credere solo nella sventura. La sventura è l’unica forma che hanno i paesi per farsi riconoscere. La loro vita ordinaria sembra non esistere. Il paese interessa quando cade, quando frana. E allora il centro finalmente si muove verso i margini. Bisogna coinvolgere nel racconto dei terremoti un po’ di persone speciali. Bravi registi, bravi poeti, bravi fotografi. Per raccontare un luogo terremotato non basta il lavoro usuale dei giornalisti. Ci vuole qualcosa di più. E così anche per la ricostruzione: se c’è l’urbanista perché non deve esserci anche il paesologo?
La cosa importante è ragionare sui paesi italiani. E invece questo non accade. E quando subiscono un terremoto ci troviamo impreparati anche dal punto di vista culturale. È come se non avessimo le lenti per guardarli, per capire cosa sono adesso. Ecco che diventa difficile salvarli senza manometterli più di tanto. Lavorare sui paesi senza espanderli, tenendo conto che tendono a perdere abitanti. Ma i paesi non muoiono, ci vuole poco per tenerli in vita. Nella ricostruzione bastano poche idee: fare le case prima ai residenti nei centri storici, poi ai residenti che si sono fatti la casa in periferia e in ultimo a quelli che le case le tenevano chiuse. Bisogna fare anche cose nuove, se servono a determinate attività economiche. Magari un ristorante che era in periferia può essere ricostruito in centro: piccole azioni centripete, in contrasto con la forza centrifuga che sempre agisce in questi casi. Si può pensare anche a una ricostruzione che diventi attrattiva. Per esempio, si scelgono cinquanta case di campagna e si affidano a cinquanta grandi archittetti di tutto il mondo. I contadini non solo restano dov’erano, ma le loro case diventano punti di un grande museo diffuso dell’architettura contemporanea. Sarebbe un’operazione senza grandi costi. E ovviamente deve essere fatta su case di campagna manomesse dalla modernizzazione incivile, prima che dal terremoto. Insomma, nel ricostruire i paesi non si tratta solo di sbloccare i fondi, ma anche l’immaginazione. E allora se al paese erano scomparse le fontanelle pubbliche si possono rimettere. Se c’era un edificio incongruo che è caduto non è detto che bisogna ricostruirlo dov’era: la proprietà deve essere considerata sotto l’aspetto dell’uso sociale (articolo 42 della Costituzione). È molto importante ricostruire pensando alla connessione tra paese e paesaggio, bisogna pensare alla terra più che al cemento.
La terra trema e non possiamo farci niente. Possiamo far tremare consuetudini, rendite di posizione, grettezze provinciali ben saldate con gli interessi degli intrallazzatori sempre all’opera in questi casi. Il terremoto dovrebbe aiutarci a buttare giù l’Italia degli imbrogli e a far salire quella dell’attenzione e della bellezza.
Articolo pubblicato sul blog Doppiozero