"La rivoluzione meridionale" è un classico ancora vivo

L'intervento di Paolo Speranza sulla ristampa dell'opera di Guido Dorso

Avellino.  

Pubblichiamo una parte dell'intervento di Paolo Speranza alla presentazione della ristampa de "La rivoluzione meridionale" (Mephite) di Guido Dorso, lo scorso 7 agosto nell'ambito de La Bella estate.

Un classico come La rivoluzione meridionale di Guido Dorso irradia preziosi bagliori di conoscenza e di pensiero a novant'anni dalla sua prima edizione, che già nel 2003 abbiamo potuto riscoprire grazie all'iniziativa editoriale di Mephite, oggi riproposta in collaborazione con l'Archivio Storico della Cgil irpina.

Una luce che ci illuminerà ancora a lungo, va aggiunto con apprensione più che con compiacimento, considerando il divario che ancora separa - e per molti indicatori si accentua - il nostro Mezzogiorno dal resto d'Italia e da gran parte dell'Europa, come ha autorevolmente ribadito di recente il nuovo rapporto Svimez. E i riflessi che emana, come vedremo, restano tuttora i più limpidi nell'ambito dell'ampia bibliografia dorsiana, dal momento che i numerosi e pur fondamentali scritti risalenti all'ultima fase del secondo conflitto mondiale ed agli albori della Repubblica sono inevitabilmente condizionati dalle emergenze politiche del momento e, in qualche misura, anche offuscati dalla lunga scia di lutti e rancori provocati dalla guerra voluta da Mussolini e, nella vicenda personale dell'autore, da un ventennio di censura e di limitazione della libertà che aveva determinato quella "solitudine" richiamata più volte, con enfasi, dai suoi discepoli prediletti Muscetta e Maccanico.

Questo differente grado di lucidità tra il pre e il post-fascismo nell'analisi dorsiana venne immediatamente percepito all'indomani della Liberazione dalla giovane intellighenzia antifascista: in qualche caso (si pensi al Diario del 1944 di Italo de Feo, all'epoca segretario di Togliatti) con toni di delusione e persino sarcastici, il più delle volte invece con deferenza e rispetto per un intellettuale di ingegno e tempra morale tanto elevati. La riscoperta del capolavoro di Dorso, che non a caso nel '45 fu scelto per inaugurare la collana Problemi italiani di Einaudi, si inseriva nella lungimirante politica culturale togliattiana - che lo stesso Dorso, come è noto, mostrò di non condividere - di recuperare in senso "progressivo" le esperienze e le figure migliori dell'Italia prefascista, incarnate idealmente, ad esempio, nella figura di Giorgio Amendola, figlio del noto leader liberale Giovanni, che Togliatti giudica con rispetto mentre Dorso, in questo libro, bolla come esponente reazionario e funzionale alla "stretta conservazione di interessi nordici", concedendogli al massimo di rappresentare "la conservazione intelligente". Così come resta tuttora aperto e degno di interesse quello che potremmo definire il "caso Rubilli", il deputato tanto popolare nella città di Avellino e altrettanto stimato dall'intero Parlamento (a commemorarlo al Senato si levò la nobile voce di Umberto Terracini) che Dorso sostanzialmente assimilò ai cascami, la "leva dei morti" - per usare una sua celebre espressione - del liberalismo meridionale.

Se nell'Italia liberata si scelse dunque di ripartire da Dorso, e da Carlo Levi, per conoscere il dramma del Sud - dramma oscurato e rimosso dal Fascismo - non sembri quindi paradossale che anche oggi, a 70 anni dal 25 aprile, occorra ripartire dai veri classici del pensiero meridionalista (da Dorso a Gramsci, da Giustino Fortunato a Rossi-Doria) per dar vita a quel confronto di alto profilo culturale che è condizione necessaria e preliminare per le scelte politiche di portata epocale che si impongono hic et nunc per la sopravvivenza (perchè di questo si tratta) delle zone interne dell'Italia meridionale. 

Paolo Speranza