Ritratto di famiglia nella tormenta

Cinema. "Forza maggiore", un film dai paesaggi kubrickiani del regista svedese Ruben Oestlund

Avellino.  

“FORZA MAGGIORE”. Una colazione all’aperto durante la vacanza sulle Alpi di una tranquilla famiglia scandinava, dalle apparenze felici e affiatate, viene funestata da una specie di valanga. Nel panico generale, mentre la moglie pensa subito ai figli, il marito pensa a salvare se stesso. Non ci poteva essere partenza più semplice di questa: un banale incidente che mette a nudo tutto l'invisibile. Che manifesta delle realtà sconosciute agli stessi che le stanno vivendo.

L’intelligenza assoluta del quarantunenne regista svedese Ruben Oestlund, sceneggiatore, nonché montatore di questo film (SVE-DAN-NORV-FRA, 14), si evidenzia anche da questa partenza: un “piccolo” episodio sviluppato con grande rigore esponenziale. Mettendo tutti di fronte alle conseguenze, che diventano come quelle valanghe “provocate” da mine che echeggiano implacabilmente nel corso della prima parte. Esse sono magari indifferenti e lontane, ma non mancano di punteggiare una realtà che è perpetuamente, pericolosamente in bilico; come circondata da insidie. Lo stesso scenario della montagna, in cui è incastonato l’enorme, freddamente e asetticamente lussuoso, labirintico e silenzioso, quasi disabitato (eppure, per contrasto, sulle piste c’è molta umanità), Resort di Les Arcs in Haute Savoie, non dà quel senso di infinito e di assolutezza che ci aspetteremmo dall’open space, ma un senso di angosciosa oppressione. In cui sembrano rinchiusi i quattro membri della famigliola: quasi in una sorta di coattività vacanziera.

La scansione dei tempi di montaggio è amplificata e sostenuta da quella dei cromatismi, che sono rigidi e freddi: il direttore della foto, Fredik Wenzel, molto sperimentale, è riuscito a irradiarvi, pur all’aria aperta e nelle diverse sfumature della neve, un’incombente atmosfera, dalle ombre quasi horror, benché il film non lo sia per nulla. Anche se c’è una incisiva e impaurente, e breve, sequenza in cui un insettone, che è un drone giocattolo dei figli, irrompe, inaspettato e spiazzante, in uno dei dialoghi di autocoscienza del film: è un mezzo per sottolineare la fortissima tensione accumulata. Qualcuno ha paragonato l’insieme visuale interno-esterno all’Overlock Hotel di kubrickiana fantasia: ma, ripeto, siamo assolutamente lontani da ogni tensione o effetto horror.

Il film è tutto basato su progressivi coinvolgimenti psicologico-ambientali. Anzi, è da notare come questo esperto regista, pur sgusciando tra le diverse citazioni filmiche, tutte adeguate e funzionali, da una parte, non se ne compiace, ma le utilizza, come luoghi narrativi che aiutano e sottolineano gli sviluppi anche traumatici dei personaggi. Dall’altra, il suo, fondamentalmente, non è un cinema “della cattiveria”, alla Haneke, il regista austriaco cui è stato avvicinato. Che, impietosamente, smaschera e sferza tutte le finte certezze piccolo borghesi di civiltà e decoro: le mette a nudo per dimostrarne l’intima ipocrisia e la sostanziale violenza di rapporti sociali che sottendono. In questo film, la consapevolezza femminile è la voce più decisa: la moglie, la bravissima attrice norvegese (nota in tv) Lisa Loven Kongsli, va per gradi più a fondo della questione; ne è investita in un processo di maturazione progressiva, molto umano, credibile e realistico. In questo, il lavoro di sceneggiatura è di cesello. Come anche sono validi e convincenti i dialoghi e gli scambi, gli approfondimenti e le reazioni che ne scaturiscono non solo nei due ma tra i vari personaggi, come nella coppia di amici coinvolti.

Anche il ruolo del marito, l’attore svedese Johannes Kuhnke, è costruito con molta cura: egli, in un certo qual modo, non si rende nemmeno conto di ciò che ha fatto. Nega, all’inizio, che sia avvenuto. Poi, messo alle strette e di fronte all’evidenza, entra in un tunnel di disperazione-autocommiserazione , da cui poco manca che sia lui a dover essere salvato! Ma, proprio questo insieme di sequenze, fa intendere il “polso” del regista, la sua concezione non apocalittica e nemmeno banalmente intimistica. Egli gestisce con freddo e distaccato documentarismo simil-mélò, questa quasi commiserazione collettiva di catarsi familiare. In ciò manifesta il suo non moralismo nell’accogliere le complessità e contraddizioni strutturali dell’universo-famiglia; e il suo mistero.

Del resto la doppia metafora del sottofinale - quella del perdersi/ritrovarsi tutti insieme nelle tormenta della neve e il procedere sempre insieme a piedi, dopo essere discesi dal pullman, guidato in modi irresponsabili, sulla via del ritorno -, indica come i processi di colpa, responsabilizzazione, perdono reciproco siano inestricabilmente annodati.

Ciccio Capozzi