Joe Adonis, il killer in abito bianco

Uno spettacolo teatrale sul gangster originario di Montemarano, braccio destro di Lucky Luciano

Avellino.  

La scena, a scorrere le rarissime immagini e cronache dell'evento, deve essere stata piuttosto simile a quella che chiude il celebre Totò a colori (1952), con la festa di piazza per il ritorno a Caianello dell'emigrante che ha fatto fortuna in America. Anche nel film di Steno il "paisà" è un gangster, dai modi spicci e dalla pistola facile; anche lui porta un cappello a larghe falde e veste di bianco; e, addirittura, ha lo stesso nome: Joe.

 

Solo che, rispetto al goffo e rude Joe Pellecchia ridicolizzato dal maestro Scannagatti, quello vero risultava più affabile ed elegante. Non a caso, negli Stati Uniti, lo avevano ribattezzato "Adonis", con esplicito riferimento al "bello" per antonomasia della mitologia greca. E con quel nome tutti lo conoscevano: Joe Adonis. Al secolo Giuseppe Doto, nato il 22 novembre 1902 a Montemarano, in provincia di Avellino, da Michele, falegname, e da Maria De Vito, casalinga. In quel paesino ameno ma poverissimo il piccolo Giuseppe visse solo un paio d'anni, prima di imbarcarsi con i genitori al molo Beverello di Napoli, destinazione Stati Uniti, dove il padre avrebbe finalmente trovato un lavoro stabile come capomastro e dove in rapida successione nacquero i tre fratellini di Joe: James, Anthony e Albert.

 

Da quel viaggio della speranza, stipato in nave accanto a migliaia di connazionali, erano passati più di cinquant'anni, e ora Giuseppe Doto rivedeva il suo paesino con gli occhi di un uomo maturo. Era il 29 gennaio del 1956. E una festa, come nel film con Totò, fu a Montemarano il ritorno di Joe Adonis. Con i paesani pronti ad accogliere uno di loro, il figlio di Michele e Maria, uno dei tanti che erano emigrati e non immaginavano di poter rivedere un giorno in paese, dove vivevano ancora i suoi parenti. Così almeno la racconta uno dei pochi (se non l'unico) cronisti di quella "giornata particolare", l'inviato del "Roma" Fausto Grimaldi, capo della redazione irpina del quotidiano di Achille Lauro, e la foto pubblicata in terza pagina sembra confermarlo. Insomma, una kermesse dal sapore paesano, una rimpatriata di quelle che, oggi, avrebbero sbancato l'audience di programmi tv deteriori come La vita in diretta o le trasmissioni strappalacrime di Maria De Filippi.

 

E pensare che qualche rompiscatole, sottolineava il "Roma", aveva tentato in ogni modo di mandare a monte la festa, seminando dubbi e insinuazioni su un così gradito ospite. I soliti comunisti, ovviamente. Sul loro periodico provinciale, "Il progresso irpino", nel numero del 3 febbraio, il direttore Nicola Vella aveva espresso tutta l'indignazione per un'accoglienza tanto soft e disinvolta nei confronti di un pericoloso pregiudicato che gli Usa avevano rimpatriato in Italia non certo per ragioni umanitarie, quanto per la sua acclarata pericolosità sociale. Ma queste argomentazioni erano ben lungi dal fare breccia nelle autorità politiche locali, nella magistratura irpina, nel clero e nella stampa "moderata" di Avellino. Correva voce che Joe Adonis fosse un gangster? O meglio, uno dei più noti e temuti boss della malavita americana, braccio destro dei "padrini" Frank Costello, Vito Genovese, Albert Anastasia, Lucky Luciano? Per essere pignoli, uno dei più spietati killer di Cosa Nostra? E qual era il problema, era il ragionamento (neanche troppo) sottinteso dell'opinione pubblica "moderata": in fondo, non era mica un comunista...

 

E' una storia paradossale ed emblematica, quella del ritorno di Joe Adonis, che dal microcosmo di Montemarano e della poverissima Irpinia di allora ci aiuta ad illuminare il contesto storico dell'Italia di quegli anni Cinquanta. Un Paese dominato da una cappa clericale e oscurantista, che pochi anni prima, alla vigilia della campagna elettorale più combattuta della storia repubblicana, aveva visto un pullulare di apparizioni della Vergine, e quattro anni dopo avrebbe tuonato (con in testa il clero e la magistratura di Milano) contro La dolce vita di Fellini e, più avanti, contro il capolavoro di Visconti Rocco e i suoi fratelli; che in Sicilia registrava da anni una strage continua di sindacalisti della Cgil e della Federterra ad opera della mafia, organizzazione di cui il cardinale di Palermo Ruffini negava persino l'esistenza, mentre la Dc ne candidava i più potenti boss locali come Navarra, Genco Russo, Vizzini; che in nome della lotta al comunismo, nel clima della "guerra fredda" e della Chiesa preconciliare, giustificava e copriva la corruzione diffusa, i privilegi di classe, ogni sorta di scempio ambientale di cui paghiamo ancor oggi le conseguenze. Di quella festa popolare in onore del compaesano mafioso, i cittadini di Montemarano non avevano colpa, animati com'erano da quelle doti di generosa accoglienza e di genuina semplicità che appena un anno prima aveva registrato con ammirazione un altro americano in viaggio in Italia, l'illustre musicologo Alan Lomax. E lo stesso cronista del "Roma", che non era a conoscenza dei documenti del Senato di Washington su Adonis e sugli altri "indesiderabili" rispediti in Italia, e per partito preso bollava come propaganda di parte le rivelazioni che in quei giorni uscivano su "L'Espresso" e "Vie nuove" (ma anche un'autorevole rivista meridionale di area governativa come "Nord e Sud" aveva denunciato il rimpatrio di Adonis, con una lettera del giornalista Cescenzo Guarino, fin dal gennaio del '55), non aveva fino in fondo la cognizione di chi fosse quel Giuseppe Doto che aveva lasciato la sua Irpinia a due anni, e negli States si era costruito fin da ragazzo una carriera di criminale che aveva fatto tremare persino il Senato e l'Fbi. Carriera che in Italia, dopo la rapida visita "anema e core" nel paese natale, conobbe un ulteriore rigoglio: "Ma non poteva certo essere la quiete di Montemarano - si legge a pag. 235 del volume I gangsters, edito da The New Italian Library nel 1973 - a conquistare l'animo di Giuseppe Doto, che non vi rimase che il tempo necessario per consegnare il foglio di via datogli a Roma".

 

Dopo un breve soggiorno obbligato a Bonea, in provincia di Benevento, e prima di essere confinato presso Ancona, dove si spense nel '71, Joe Adonis si stabilì a lungo a Milano, riuscendo ad "esportare" la mafia - come documentano i libri e le inchieste di Enzo Catania, Nando Dalla Chiesa, Goffredo Buccini e Peter Gomez - in quella che allora veniva definita la "capitale morale" d'Italia. L'eco di queste nuove imprese giunse anche nella sua Irpinia, grazie a un articolo sul periodico locale "La libertà" a firma di Edoardo Borriello, redattore di "Cinemasud" e futuro caposervizio agli Esteri del quotidiano "la Repubblica", che nel numero del 16 febbraio 1963 scriveva: "Morto Lucky Luciano, la Polizia ora controlla un altro italo-americano. Un irpino, se vogliamo essere più precisi. Alludiamo a Joe Adonis di Montemarano, il re dei biscazzieri di New York, da qualche tempo stabilitosi a Milano, ove sembra mostrar interesse solo per i titoli di Stato.

 

Joe Adonis, dunque, raccoglierà l'eredità di Lucky?". Ce n'è abbastanza, come è evidente, per ricavare un film, una mostra (con la disponibilità dei documenti e delle immagini, di cui in queste pagine si presenta qualche campione, che sono frutto delle ricerche di chi scrive), un saggio, o un testo narrativo - chi scrive ne ha tratto un racconto, ancora inedito, dal titolo Il ritorno di Joe Adonis - dalla "second life" italiana di Giuseppe Doto. O uno spettacolo teatrale, come quello che stasera a Montemarano metterà in scena la compagnia locale. Un'idea meritoria e intelligente, che consente di riscoprire una pagina dimenticata (del ritorno di Adonis a Montemarano non v'è traccia neppure nel Dizionario biografico degli irpini di Sellino editore finanziato dalla Provincia) e di saldare la vivace attività creativa di tante realtà culturali irpine con il vastissimo patrimonio di eventi, figure e suggestioni che emana dalla nostra storia.

Paolo Speranza