di Andrea Fantucchio
Quindici anni per il generale Mario Mori, dodici per il generale Antonio Subranni, il colonnello Giuseppe De Donno e Marcello Dell'Utri, sei per l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino. Parte della requistoria del pm, Vittorio Teresi, nel processo di Palermo sulla presunta trattativa Stato-Mafia.
Si è arrivati all'atto conclusivo del procedimento durato oltre quattro anni, più di duecento udienze celebrate davanti alla corte d'Assise presieduta dal magistrato Alfredo Montalto, a latere il giudice Stefania Brambille.
Le richieste del pm Teresi, affiancato dai colleghi Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, non hanno risparmiato Leoluca Bagarella, chiesti per lui 16 anni, e Gaetano Cinà, la richiesta del pubblico ministero è di dodici anni. Una proposta di pena della stessa proporzione sarebbe arrivata per l'imputato principale del processo, il vertice di Cosa nostra Salvatore Riina, morto a dicembre.
Non si porcederà, per intervenuta prescrizione, per concorso esterno in associazione mafiosa a carico di Massimo Ciancimino per il quale sono stati chiesti cinque anni. Dovrà rispondere del solo reato di calunnia nei confronti dell'ex capo della polizia Gianni Di Gennaro.
Nella requisitoria sono stati ripercorsi gli episodi chiave al centro dell'indagine, che per la Procura avrebbe evidenziato, in modo inequivocabile, il tentativo di esponenti mafiosi di ricattare Governo e istituzioni. Dopo le stragi nelle quali hanno perso la vita i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Per Mancino le accuse formulate nei suoi confronti sono state riassunte nella scorsa udienza. Il pm, Nino Di Matteo, ha ribadito come «le dichiarazioni dell'ex ministro dell'Interno sull'incontro col giudice Paolo Borsellino al Viminale, il giorno del suo insediamento, fossero contradditorie»
Nel 2010 l'imputato aveva detto di non ricordare l'incontro spiegando che «anche se avesse incontrato Borsellino probabilmente non lo avrebbe riconosciuto». Poi aveva cambiato versione ricordando anche la data dell'incontro.
L'ex ministro della Giustizia Claudio Martelli aveva poi raccontato di «essersi lamentato con Mancino del comportamento dei Ros (Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri)». Mancino aveva invece dichiarato di non aver mai parlato dei Ros con Martelli.
La Procura ha poi parlato di alcune intercettazioni di colloqui fra Mancino e il magistrato Loris d'Ambrosio, dalle quali emergerebbe «il tentativo di Mancino di condizionare l'attività giudiziaria scegliendo il collegio dei giudici. Tentativo alimentato e assecondato dal Quirinale».
Altra incongruenza evidenziata dall'accusa: Mancino aveva espresso la sua consapevolezza di una spaccatura fra Riina e Provenzano spiegando come «ci fossero due correnti mafiose, la militarista e la trattativista, dialogante a livello locale e non con lo Stato».
«L'unica altra fonte ad aver descritto quella situazione – ha evidenziato Di Matteo – era stato Vito Ciancimino». Mentre le indagini dell'epoca descrivevano un'unità di vedute fra Riina e Provenzano. Per l'accusa quindi Mancino avrebbe ricevuto l'informazione proprio da Ciancimino.