Sette mesi fa il taglio del nastro. Don Ciotti che benedice l’avvio delle attività nella villa del boss Graziano trasformata in un’azienda. Primo esempio in Irpinia di come sia possibile riconvertire socialmente un bene confiscato ai clan. Oggi, però, il maglificio di Quindici rischia già di chiudere. Le commesse non arrivano. I fornitori non sono stati pagati. Non è stato liquidato nemmeno chi si è occupato in tutti questi mesi di formare il personale. Già, il personale: è questa la vera nota dolente, se non addirittura drammatica, dell’intera vicenda. Gente selezionata per lavorare full time, ma che poi è stata contrattualizzata part time. Gli stipendi? Chi l’ha visti. L’ultimo, che poi sarebbe il primo ed unico, risale al novembre scorso. Da allora i 7 lavoratori, oggi diventati 5 perché due si sono già licenziati proprio per ragioni economiche, non hanno percepito un solo centesimo. Inevitabile l’amarezza, che presto potrebbe sfociare in scontro e polemica.
Rosanna Caliendo, portavoce dei lavoratori del maglificio CentoQuindici Passi, lancia un appello al Prefetto di Avellino e alle altre Istituzioni che hanno promosso l’iniziativa. «Da una settimana non andiamo a lavorare nel Maglificio intitolato ad una vittima innocente di camorra. Lo Stato dov’è finito? Della maglieria tecnica per le forze dell’ordine perché non si parla più?. Non facciamo morire Nunziante Scibelli per la seconda volta». Segue la proposta: «Il Prefetto affidi la gestione del maglificio ad un’azienda affermata nel settore. Salvaguardiamo il simbolo. Altrimenti il maglificio è già finito. E con esso il nostro sogno, il sogno di chi ha creduto nello Stato rischiando la propria vita, ma che ora non più comprare il pane ai propri figli».
Rocco Fatibene