Eraldo Barra è venuto meno poco fa. Per quasi quarant'anni presso la Ragioneria di Stato come dottore commercialista, si è spento presso la sua abitazione in via degli Imbimbo, ad Avellino. I funerali domani alle 15, presso la chiesa del Cuore Immacolato di Maria.
Ma Eraldo Barra dovrà essere ricordato principalmente come un artista. Votato alla pittura e alla lotta quotidiana con tele, pennelli e colori, solo di fronte ai suoi quadri riusciva a tenere a bada i demoni che ne agitavano il carattere. Non so perché, ho smesso di chiedermelo, ma per un tratto della sua vita mi ha tenuto accanto, portato in giro, lasciato libero nel suo studio di cui era, con tutti gli altri, gelosissimo e arcigno custode.
Potrei raccontarvi della rabbia dell'idea avuta ma che la tela poi tradiva e dei colori che mischiava, riusava, ripensava, trasformando il paesaggio nel volto di un clown, di cui sfornava copie su copie.
Potrei dirvi delle decine di artisti, noti e di puro talento, che, di sera e per non farsi vedere, andavano nel suo studio a consegnare opere d'arte fresche di vernice finale, pregandolo di usare la sua arte per loro: vendere capolavori che non davano loro da vivere. Perché Eraldo Barra era soprattutto un incantatore di serpenti, di una intelligenza fuori norma, forgiata per le strade polverose di una città di Avellino appena uscita dalla guerra e piombata nella fame più nera del sud da ricostruire, dopo le bombe e i morti. Inseguire gli americani e togliere loro ogni cosa possibile è stata la sua scuola elementare. E poi l'adolescenza in una famiglia turbolenta ha fatto il resto. La cicatrice mai risolta. Neanche dopo il matrimonio, neppure dopo i figli.
La fame, di affetto, di vita, di cose gli si è attaccata dentro e lo ha reso un vagabondo dell'anima, più compiaciuto di una poesia letta a un estraneo che di una serata tranquilla insieme ai suoi affetti più veri. Come per le migliaia di tele distribuite ovunque, ha costruito e distrutto, scritto e cancellato.
Io l'ho visto infilarsi in un vicolo di un mercato palermitano con sotto il braccio almeno venti dipinti e uscirne a mani vuote. Sorridente, ma con gli occhi segnati dalle lacrime del racconto che aveva immaginato per poterli vendere.
Tanti anni dopo, tutte le sue storie tornano una a una. E quel tenero ricordo di quando, superando quel tiranno modo di attaccarsi alle cose, mi porse una tela e dei tubetti di colore perché dipingessi con lui. All'epoca non conoscevo la differenza tra gli acrilici e quelli a olio. Lui sì.
Addio maestro. Un abbraccio forte a Irene, Francesco, Paolo e Maria.