di Mariateresa Grasso
La notizia del rifiuto del sindaco di Eboli, Cariello, e dei cittadini, di costruire una moschea al centro del paese sollecita subito una riflessione su ciò che significa convivenza non solo ad Eboli, ma in tutto il nostro paese. Con la parola convivenza intendiamo: convivenza tra persone diverse tra loro; convivenza tra religioni diverse; convivenza con le proprie paure e con il desiderio di difendersi o anche di attaccare ciò che si avverte come pericoloso.
La richiesta della comunità islamica di Eboli è di costruire una moschea, cioè un luogo di preghiera per i fedeli dell’islam, al centro della città. La richiesta in sé è connotata già di una forte emozione, quella del potere. Storicamente al centro delle città ci sono i palazzi, gli edifici più importanti. In più questa comunità avrebbe il potere economico di farlo. Offrono infatti 600 mila euro per costruire la moschea.
E’ chiaro dunque l’impatto emotivo da parte di chi riceve la richiesta.
Il sindaco, tra le altre cose, risponde che le altre comunità religiose hanno costruito i loro luoghi di culto nelle zone periferiche di Eboli. (vedi il servizio di Rossella Strianese ) Premesso che non vogliamo entrare nel merito di scelte e decisioni dell’amministrazione o dei cittadini di Eboli come di altri luoghi, ma la domanda che ci poniamo è: se la moschea fosse costruita in periferia i cittadini di Eboli sarebbero contenti?
Sicuramente la dimensione del potere di cui parlavamo prima sarebbe meno forte, ma la paura nei confronti di chi professa la religione islamica diminuirebbe? Probabilmente no. Ormai l’associazione Islam- terrorismo, seppure non corretta, è quasi sempre automatica in molti di noi. Che fare? Ripetere solo che non è così non serve perché non basta. La paura è un’emozione di base, primitiva, che portiamo dentro di noi fin dalla nascita perché, insieme ad altre emozioni di base, come la gioia, la rabbia, il disgusto ed altre ci aiutano a decifrare la realtà.
Se crescendo continuassimo ad usare solo le emozioni di base per leggere la realtà vivremmo in un modo molto vicino al modo di vivere degli animali, nel senso che vivremmo in una maniera “bestiale”, con tutte le conseguenze che questo comporta. L’istruzione, l’educazione, le regole del vivere civile, la cultura e così via ci aiutano a rendere più complesse le nostre emozioni,i nostri pensieri, e quindi i comportamenti di quello che comunemente definiamo un vivere civile.
Il rischio in questo momento è che torniamo a leggere la realtà principalmente attraverso l’emozione della paura. Paura e fragilità vanno di pari passo. Ci sentiamo minacciati nella nostra identità e l’“essere contro” ci dà l’illusione di rafforzarla. Ma diventa un’illusione se non chiariamo contro cosa? Se l’ “essere contro” è verso la violenza incondizionata degli attacchi terroristici, o di qualsiasi altra forma, è un conto, se invece è verso ciò che emozionalmente associamo alla violenza è un’altra cosa.
Appare chiaro che dire sì o dire no ad una moschea è una questione molto problematica, che va al di là della decisone in sé.
Riporto le parole di due cittadini di Eboli, il primo dice: “Nel 2016 non abbiamo un campo sportivo, una chiesa, figuriamoci se abbiamo bisogno di una moschea”; il secondo: “C’è bisogno di un’altra moschea? Qui abbiamo bisogno di lavoro”
Entrambe le persone parlano di bisogni non solo personali, ma dei cittadini; bisogni legittimi e importanti. Una domanda relativa al primo intervento è se ci fosse il campo sportivo non ci sarebbero più problemi a costruire una moschea? Possiamo a questo punto dire di no, che i problemi resterebbero.
Nella seconda intervista si parla del lavoro, e sappiamo che il lavoro significa poter vivere, sostenersi, ma anche crescita sociale, culturale, significa sviluppo, forza, possibilità. Dimensioni che, dicevamo prima, sono alla base di un vivere civile.
Quanto più queste dimensioni vacillano tanto più paura e sentimento di fragilità prendono il sopravvento.
Il ruolo delle Istituzioni in questo momento è estremamente importante. Le Istituzioni diventano il terzo che può permettere la relazione, e quindi la convivenza, l’integrazione tra gruppi diversi ed in contrasto tra di loro.
Abbiamo bisogni e paure da un lato, per esempio da parte dei cittadini di Eboli, e i bisogni della comunità Islamica che è molto numerosa ad Eboli, si contano 5mila musulmani, dall’altro.
Questo è il dato di fatto. E gli aspetti di questo dato di fatto vanno presi tutti in considerazione, nessuno escluso. Spesso pronunciamo concetti quali integrazione, convivenza e li trattiamo come dimensioni valoriali date per scontato, che ci devono essere, a prescindere dalla comprensione profonda di ciò che queste significano. Non può essere così. Queste dimensioni vanno costruite e non solo proclamate. Non si può essere tolleranti solo perché altrimenti si è cattivi. Altrimenti di fronte a chi davvero compie atti drammatici, cattivi potremmo dire, come le ultime stragi, non abbiamo categorie per ragionare , per non farci spaventare ed intervenire, per ciò che è possibile, in un modo costruttivo per noi.
Riporto il contributo di un altro cittadino, di Bellizzi, dove qualche mese è stato arrestato un algerino che sembra essere implicato nella strage di Bruxelles, il quale dice:
“… dal 1992 a Bellizzi ci sono tante comunità religiose, … da noi c’è una TRADIZIONE di integrazione”
Quest’uomo parla di tradizione di integrazione, espressione che testimonia che la tolleranza, l’integrazione, la convivenza sono cose che si costruiscono con il tempo.
L’invito di Renzi a dare un euro alla sicurezza e un euro alla cultura per combattere il terrorismo sembra viaggiare in questo senso.
Aiutarci a comprendere ciò che accade oggi, ma anche aiutarci a conoscere e comprendere il passato, la storia nostra e dei musulmani, è un compito fondamentale delle Istituzioni ed è presupposto per affrontare le paure senza minimizzarle, ma anzi per prenderle sul serio e far sì che non diventino protagoniste delle nostre vite.