Il calcio esiste non per assegnare titoli o fare statistiche; il calcio esiste perché è un’emozione popolare, di quelle collettive che coinvolgono in maniera irrazionale i popoli e le masse.
Napoli è una città passionale che vive le sue emozioni senza nascondersi, senza senso del pudore, senza alcuna riservatezza. Appare spesso nuda davanti ai giudizi, con il mare che la bagna e il Vesuvio che l’ha abituata alla paura costante del disastro, una paura affrontata nel quotidiano come sottofondo silenzioso della vita rumorosa e caotica.
In questa città il calcio non è mai stato semplicemtne uno sport, un gioco, né tantomeno uno sfogo. Qui il calcio assume un valore culturale collettivo di appartenenza ad una storia condivisa. Un sentimento complesso anche di emancipazione e di rivalsa, che scorre tra le strade, nei vicoli, nelle piazze, sotto la pelle dei tanti invisibili che con questa passione diventano qualcosa di più grande. Un fluido magico che unisce e stabilizza quella comunità immaginaria che è il popolo napoletano.
Napoli è l’unica grande città ad avere una sola squadra di calcio. Una città e una provincia di 3 milioni di abitanti che concentra il tifo su un’unica maglia, che diventa un valore prima ancora che un simbolo. Questo aspetto ha sempre generato un’identificazione tra popolo e tifosi che nel tempo ha generato il curioso fenomeno del “difendi la città”.
La notte della coppa Italia, nessuno, sano di mente, avrebbe potuto immaginare il silenzio nelle strade partenopee. A Napoli quando gioca il Napoli, la partita entra nelle case di tutti, senza bussare e senza chiedere permesso, con i suoi rumori, le urla, i fuochi, le gioie, le amarezze, le emozioni.
Nessuno avrebbe potuto immaginare il calcio al tempo del distanziamento sociale, perché senza le emozioni, senza i caroselli, senza le strade piene e festanti, il calcio si trasforma in un’orrendo circo vuoto, che deve giungere a compimento per accordi economici. Una giostra che gira vuota e senza ruomori.
Il problema reale è che invece qualcuono ha immaginato di salvare gli apsetti ecnomici e di eliminare la profondo emozione che rende questo sport una poassione nazionale. Se si continua a comunicare che tutto è finito, se si dice alle persone che ora sono libere di scendere in strada a consumare, se si continua ad invogliare tutti a spendere, non si può immaginare di privare gli eventi di emozioni. Non si può pretendere di trasformare l'umanità in una schiera di cyborg programmati per consumare e produrre senza provare emozioni.
Le critiche arrivate ieri vanno lette valutando il pulpito da cui provengono. A dire “sciagurati” è stato chi rappresenta l’OMS in Italia, l’organizzazione che è il simobolo più forte dell’impreparazione globale alla pandemia, ma nche del servilismo alle grandi potenze, essendosi ridotta a scendiletto davanti a chi invece avrebbe dovuto obbligare ad una trasparenza maggiore. Dunque chi avrebbe dovuto sorvegliare, prevenire ed organizzare e invece ha partecipato ad insabbiare, oggi dice "sciagurat"i a chi in realtà è vittima.
Se a dire che è una “vergogna” per provare a lucrare qualche voto, è chi ha organizzato una manifestazione senza alcun distanziamento in strada a Roma, durante al quale si offerto ai selfie senza mascherina con chiunque. Se a indignarsi è lo stesso che con il suo partito governa quella Lombardia che è l’epicentro di questa tragedia, dove vige ancora molta nebbia sulla gestione e sulle responsabilità dell'emergenza sanitaria. Significa che c’è un tentativo goffo e sgraziato di trovare nuovi colpevoli, nuovi untori, nuovi errori, pur di solelvarsi dalle proprie responsabilità.
Se il problema vero sono gli assembramenti e i festeggiamenti allora si decida di fermare tutte quelle attività che vivono di emozioni collettive.
Verrebbe da dire che anche le elezioni dovrebbero essere rimandate, bloccate, fermate ma in realtà la politica è stata svuotata di emozioni, di persone reali e di passione già da tempo, quindi si voti pure non si rishiano di certo assembramenti.