In questo benedetto bel Paese tutto si trasforma in farsa, anche le tragedie, anche i drammi collettivi come quello che stiamo vivendo e del quale ancora non riusciamo ad uscire.
Mentre le piazze si riempiono di una rabbia sociale che un governo debole e incerto non riesce ad ascoltare e che invece le opposizioni senza scrupoli e senza sensibilità provano a cavalcare, l’Italia si divide e riscopre gli inutili revanscismi e il becero localismo che, davanti ad una pandemia globale, appaiono ancora più stupidi e provinciali.
L’Italia si è capovolta e ora è il sindaco di Milano a dire che è ingiusto discriminare qualcuno per la sua provenienza geografica. Proprio il sindaco d quella Milano che fino a gennaio era la capitale economica dell’Italia, quella della “bela Madunina” che “dominet”, quella dove i terroni, pur essendo una maggioranza, si sentono ancora terroni.
Mentre i governatori e i sindaci del Sud, isole comprese, iniziano a dire sempre più ad alta voce di essere impauriti dall’arrivo dei lombardi, come se il problema fosse la provenienza e non il contagio, dimostrando un sottile gusto nel vedere i primi della classe finalmente seduti all’ultimo banco e derisi dai professori.
Siamo riusciti a trasformare una questione prettamente scientifica, che dovrebbe riguardare la salute e la sicurezza di tutti gli italiani, in uno squallido teatrino dove a confrontarsi sono personaggi tanto blateranti quanto inutili. Aveva ragione Faber “si sa che la gente dà buoni consigli se non può dare cattivo esempio” e infatti gli stessi che si facevano fotografare nelle serate degli aperitivi in una Milano che non si doveva fermare e che invece andava chiusa, oggi riprendono a dare lezioni.
Trasformare questa pandemia globale in un confronto tra nord e sud è un modo tutt’altro che innocente, di distrarre dalle reali responsabilità. Quello che è accaduto non è una lezione per una parte del popolo o per una metà di Paese. Ciò che è accaduto è una lezione per tutti gli italiani. Le gaffes di Gallera sono tanto gravi e colpevoli come le follie di Boccia, le ingarbugliate dichiarazioni di Azzolina, le indispettite risposte di Conte, la superficialità di Zingaretti e le incapacità manifeste di Arcuri. Il virus non ha letto alcun libro di geografia, non ha studiato nessun grande trattato sul meridionalismo, non ha un nemico assegnato, non discrimina in base all’accento.
Trasformare questa pandemia globale in una insulsa battaglia tra tifoserie da stadio è un’operazione che serve a diluire, a nascondere. Un’operazione che ci riporta ad una quarantena umana, nella quale ognuno è rinchiuso nel suo confine mentale fatto di pregiudizi, rabbia e voglia di rivincite e di vendette.
Quello che abbiamo vissuto in questi mesi non è un dramma lombardo. Le decine di migliaia di morti anonimi non sono lombardi, non sono bresciani, non sono bergamaschi, sono italiani. Quella fila di camion militari carichi di bare, quelle fosse comuni, gli sguardi impauriti di chi si è spento da solo senza poter salutare nessuno, sono parte di un dramma collettivo che non ha confini e che non può essere recluso in una geografia inventata per deviare il discorso.
Aprire o non aprire non è una questione di piccola bega tra un sindaco che prova a ritrovare un minimo di credibilità e un governatore che prova ad uscire dall’ombra. Permettere ai cittadini italiani di attraversare questo benedetto bel Paese è un traguardo che si può raggiungere solo se si continua a monitorare il contagio, se si ascoltano gli scienziati e non gli imbonitori, se le istituzioni ragionano e agiscono come parte di un unico sistema Paese e non come schegge impazzite in cerca di consenso.
Il virus ci ha mostrato con chiarezza i nostri limiti, le nostre difficoltà e i nostri difetti. Questo insulso microrganismo ci ha svelato che da soli non esistiamo, che ogni regione, ogni comune, ogni quartiere, ogni condominio esiste perché è parte di un sistema più grande che è interconnesso, in cui una scelta individuale incide sulla vita di tutti.
Ripartiamo da questo, da quei morti, da questo dramma che è di tutti e non di una parte. Ripartiamo spegnendo le polemiche, abbassando la voce a chi non ha nulla da dire se non chiedere scusa. Ripartiamo dall’aver scoperto di essere tutti parte dello stesso Paese.