De Magistris condannato per diffamazione

Il sindaco dovrà pagare 20mila euro per due articoli che del suo blog sulla vicenda "Why not"

de magistris condannato per diffamazione
Napoli.  

Il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, è stato condannato per diffamazione dalla Corte d'Appello di Catanzaro, seconda sezione civile.

Il primo cittadino partenopeo dovrà pagare 20mila euro e pubblicare la sentenza che lo condanna sul suo blog, dal quale la vicenda è iniziata, entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza. 

A proporre appello era stato l'imprenditore Maurizio Mottola di Amato, legale rappresentante della Impremed spa nonché marito del giudice Abigail Mellace, che ha svolto le funzioni di gup al Tribunale di Catanzaro nel processo "Why not". 

A ottobre 2010 De Magistris aveva scritto sul proprio blog due articoli titolati "Le Mistificazioni del regime" e "Il giudice di Why not… non di Berlino", articoli poi ripresi da un quotidiano calabrese. Secondo Mottola di Amato "l'autore avrebbe riferito notizie false e incomplete sulla sua vicenda processuale senza dare conto del suo esito, contestualizzandole in un ambiente giudiziario caratterizzato a suo dire da indebiti aggiustamenti processuali e utilizzando espressioni denigratorie e lesive della sua reputazione personale e imprenditoriale". 

L'imprenditore era stato coinvolto nell'inchiesta "Splendor" avviata nel 2004 al termine della quale, nel 2006, è stato assolto con formula piena. Nel 2012 il Tribunale di Catanzaro si era espresso con un non doversi procedere perché De Magistris non era punibile per immunità parlamentare (a quel tempo era europarlamentare). Adesso i giudici d'appello lo ha ritenuto processabile.

"Non c'è stata alcuna condanna per diffamazione in sede penale ma solo una provvisoria sentenza civile di soccombenza in sede di appello, dopo aver avuto pienamente ragione in primo grado - ha commentato così la sentenza il sindaco Luigi de Magistris - Sono certo che la sentenza, essendo gravemente e totalmente infondata, verrà riformata in Cassazione”.