In una giornata elettorale che assume un valore fondamentale per quell’Unione Europea che è al centro delle critiche e dei processi politici degli ultimi anni, ricordare un discorso di Altiero Spinelli è un atto importante e necessario per capire davvero cosa sia e come sia nata l’idea di unire l’Europa.
Spinelli faceva parte di quei confinati dal fascismo che dalla piccola isola di Ventotene, nel periodo più buio dell’umanità, la II Guerra Mondiale, sognarono e schematizzarono l’unione degli stati europei. Quel sogno di un continente che usciva da uno dei conflitti più distruttivi della storia più unito, più forte, più tollerante, più accogliente e che metteva al centro i diritti, diventava una realtà concreta che avrebbe cambiato il corso della storia dell’umanità.
In questo discorso pronunciato da Spinelli al Parlamento Europeo in seduta plenaria del 14 febbraio 1984. C’è il progetto di trattato istitutivo dell’Unione Europea
Signor Presidente, onorevoli colleghi, la commissione per gli affari istituzionali ha portato a termine il mandato che quest'Assemblea gli aveva conferito. Oggi ho l'onore di chiedervi, in suo nome, di approvare la risoluzione che contiene il progetto di trattato che istituisce l'Unione.
Prima di cominciare la mia esposizione, mi si permetta di richiamare l'attenzione sul fatto che nella motivazione è stata tolta una linea. Essa ricordava il primo testo che sollevava il problema della riforma istituzionale e che è la proposta di risoluzione Van Aerssen del mese di settembre 1979. La linea soppressa verrà ristabilita.
Mi sia permesso fare un'osservazione preliminare concernente gli emendamenti, sui quali siete chiamati a pronunciarvi. Una prima categoria di emendamenti è costituita da modifiche stilistiche, che la commissione per gli affari istituzionali non ha avuto il tempo di incorporare nel testo e delle quali essa chiede l'adozione. Una seconda categoria è quella degli emendamenti che sottopongono di nuovo all'Assemblea soluzioni di ricambio che la commissione aveva già esaminato e rifiutato. La commissione non può che chiedere di respingerli, perché modificano testi che sono il frutto di compromessi talvolta complessi e delicati, che non è opportuno voler sconvolgere. Dal momento che dovremmo essere tutti consapevoli che questo progetto nasce dalla convergenza necessaria tra le idee di famiglie politiche differenti, chiederò piuttosto spesso agli autori degli emendamenti di volerli ritirare.
Un'ultima categoria concerne emendamenti che contengono alcune idee o sfumature nuove. La commissione propone che vengano adottati, o che venga adottato un emendamento di compromesso da lei stesso accettato, tutte le volte che gli emendamenti non modificano il significato globale degli articoli. Tra questi emendamenti, ce ne sono che riguardano l'articolo 82 del trattato e i paragrafi 2 e 3 della risoluzione, il cui accoglimento o il cui rifiuto ha conseguenze su tutto il significato politico del progetto. Ne parlerò fra poco.
Vengo così al tema centrale del nostro dibattito, che, essendo il quarto che l'Assemblea dedica a questo argomento, si concentrerà probabilmente sull'essenziale, che vorrei formulare in questo modo: qui, oggi, il Parlamento europeo deve spiegare con chiarezza e con fermezza le ragioni politiche della nostra iniziativa. Esso deve spiegarle a se stesso, ai governi e ai parlamenti degli Stati membri, ai partiti, alle forza sociali e soprattutto ai cittadini, nelle mani dei quali, fra quattro mesi, rimetteremo il mandato che avevamo sollecitato cinque anni fa. Con la mia introduzione al dibattito, intendo contribuire alla chiarezza e alla fermezza di questa spiegazione.
La nostra iniziativa istituzionale e il piano Genscher-Colombo sono nati quasi contemporaneamente un po’ più di due anni fa e hanno molte cose in comune. Le due iniziative partono dalla stessa percezione della contraddizione esistente tra il bisogno crescente di unità europea e il pericolo evidente che essa corre non solo di non avanzare, ma anche di indietreggiare. Tali iniziative vedono la ragione fondamentale di questa crisi in una definizione troppo ristretta degli scopi da raggiungere e in un metodo di lavoro poco efficace. Esse sono, conseguentemente, basate tutte e due su una riforma istituzionale. Esse hanno in comune anche l'acuta consapevolezza dell'impossibilità di pervenire ad un risultato senza un compromesso tra i partecipanti alla ricerca della soluzione.
I metodi seguiti nelle due ricerche sono stati, invece, molto differenti. I negoziatori del piano Genscher-Colombo, ministri e diplomatici, derivavano la loro legittimità dalla loro qualità di rappresentanti di Stati in quanto tali. Benché consapevoli di affrontare problemi di dimensione e di significato europei, essi erano tenuti tutti, per vocazione istituzionale, a vedere prioritariamente le cose nella loro prospettiva nazionale. Nella nostra iniziativa, noi derivavamo la nostra legittimità dalla nostra qualità di rappresentanti eletti dei cittadini della Comunità, di responsabili più autentici della democrazia europea nascente. Venuti dalla vita politica e sociale dei nostri paesi, siamo tutti consapevoli della necessità di farci carico dei problemi propri dei nostri rispettivi paesi. Ma la nostra vocazione istituzionale è vedere prioritariamente le cose nella loro prospettiva europea. Conosciamo ormai i risultati di questi due modi di procedere differenti. Nel corso della negoziazione del piano Genscher-Colombo, la prospettiva nazionale ha preso irresistibilmente il sopravvento. La europea si è progressivamente fatta da parte e la dichiarazione finale propone, praticamente, che venga rafforzata l'azione intergovernativa a scapito dell'azione soprannazionale. Nell'elaborazione dl progetto che voteremo questa sera, la prospettiva europea non solo non si è mai attenuata, ma è diventata più chiara, più sicura di sé, via via che il lavoro progrediva.
Il nostro progetto fa della Commissione un vero esecutivo politico, mantiene un ruolo legislativo e di bilancio per il Consiglio dell'Unione, ma lo definisce e lo limita, dà al Parlamento un vero potere legislativo e di bilancio, che esso divide con il Consiglio dell'Unione. Il nostro progetto riconosce l'esistenza di una sfera di problemi che saranno trattati dal Consiglio europeo con il metodo della cooperazione. Ma, da un lato, esso vieta al metodo intergovernativo di invadere il campo dell'azione comune e, da un altro lato, apre una porta che rende possibile il passaggio dalla cooperazione all'azione comune. In un certo senso è stato provvidenziale che tra Stoccarda, dove è stato votato il piano Genscher-Colombo, e Strasburgo, dove si vota oggi il progetto di trattato, si situi il Consiglio di Atene. Per il piano Genscher-Colombo, Atene è stata un vero e proprio "hic Rhodus, hic salta!", e non ha saputo saltare. Esso aveva proposto di rafforzare il metodo intergovernativo, e Atene ha dimostrato l'impossibilità logica, oltre che politica, di concepire e di realizzare secondo questo metodo politiche di ampio respiri, che hanno bisogno di prolungarsi nel tempo, di fondarsi su larghi consensi, di spezzare certe rigidità nazionali. Ma il disastro di Atene ha mostrato anche, inaspettatamente, quel che i Consigli precedenti, sebbene sempre più paralitici, erano riusciti a velare pudicamente.
Per la prima volta, il Consiglio di Atene ha mostrato la possibilità della fine dell'unione realizzata nella Comunità e del ritorno ai sacrosanti egoismi nazionali. Tutti hanno avuto paura delle conseguenze di una scissione del genere e si sono messi alla ricerca dei mezzi per impedire l'affondamento della barca europea.
Il nostro progetto di trattato non sarebbe potuto apparire sulla scena politica in un momento più appropriato, visto che è la sola risposta politicamente e intellettualmente valida al fallimento di Atene. La nostra risposta è, come tutte le cose vere e autentiche, al tempo stesso semplice e difficile da digerirsi. Può essere riassunta in pochissime parole: gli affari di interesse comune possono essere gestiti validamente solo da un potere veramente comune. Chi cerca seriamente di uscire dal vicolo cieco di Atene deve aderire al nostro progetto, ma quanti tabù bisogna superare per vedere le cose evidenti!
Una volta approvato, il nostro progetto non dovrà andare al Consiglio, che lo trasmetterebbe ai rappresentanti diplomatici, i quali lo sezionerebbero e lo seppellirebbero. Noi lo faremo pervenire ai governi e ai parlamentari nazionali, chiedendo loro di avviare le procedure di ratifica.
La commissione per gli affari istituzionali vi propone di seguire questa via sostanzialmente per due ragioni, complementari tra loro. Da un lato, questo Parlamento eletto deve avere la consapevolezza chiara, precisa e fiera di essere la sola istanza europea in cui sono legittimamente rappresentati i cittadini d'Europa in quanto tali, secondo raggruppamenti politici che sono gli stessi di quelli che esistono nell'ambito nazionale. E', conseguentemente, la sola istanza europea capace di elaborare un progetto costituzionale senza perdere di vista la prospettiva europea e con la partecipazione delle forze politiche di tutti i paesi membri. D'altra parte, i governi e i parlamenti nazionali sono evidentemente consapevoli della necessità di fare avanzare la costruzione europea, e dunque dire sì o no a un progetto europeo. Ma, se si mettono intorno ad un tavolo come ministri nazionali o delegazioni parlamentari nazionali per redigere un testo, essi possono solo provocare i riflessi nazionale di ogni ministro o di ogni delegazione parlamentare e riaprire automaticamente la discussione sulle rivendicazioni nazionali necessariamente divergenti. Il metodo della trattativa diplomatica farebbe rapidamente riprendere il sopravvento all'interesse nazionale e il progetto del Parlamento europeo verrebbe rapidamente ridotto a un documento di lavoro, per essere poi messo da parte.
Certo, non si può escludere che l'accoglimento del nostro progetto cozzi contro ostacoli del genere, che convenga al Parlamento riprenderlo, rimetterlo, per così dire, in cantiere, rimodellarlo. Ma aspettiamo di vedere, prima di decidere di farlo. Guardiamoci bene dal far discendere fin d'ora il nostro progetto, dal livello di progetto formale della sola Assemblea politica abilitata a proporre un testo istituzionale europeo, al livello di un documento di lavoro umilmente presentato da un'Assemblea poco sicura del suo diritto di redigerlo.
Mi sono soffermato su questo aspetto della nostra iniziativa, contenuto nei paragrafi 2 e 3 della risoluzione e nell'emendamento di compromesso che la nostra commissione raccomanda di approvare, perché l'emendamento Haagerup-Nord chiede esattamente quello di cui ho cercato di dimostrare l'incoerenza. Se questo emendamento dovesse essere approvato, dichiareremmo noi stessi che siamo incapaci di presentare un progetto valido. Probabilmente alcuni di noi, ed io in ogni caso, proveremmo una certa vergogna a mettere ancora i piedi in un parlamento capace di un simile atto di automutilazione e di autoderisione. Decideremo dunque, lo spero, di rivolgerci ai governi e ai parlamenti degli Stati membri per chiedere loro di assumere e di approvare il progetto.
La vera battaglia per l'Unione comincerà in quel momento, e il ruolo del Parlamento europeo continuerà a essere essenziale, visto che dovrà guidare e animare un'azione dura ed esigente, che potrà riuscire solo se sapremo essere tenaci.
I nostri gruppi politici saranno invitati ad esercitare tutta la loro influenza sui loro partiti e, conseguentemente, sui gruppi politici omologhi nei parlamenti nazionali. Noi difenderemo e faremo conoscere il nostro progetto nella prossima campagna elettorale. Chiediamo, fin d'ora, che il futuro Parlamento prenda tutte le iniziative necessarie per superare gli ostacoli e ottenere le ratifiche. Richiamo la vostra attenzione anche sull'articolo 82 e sull'emendamento di compromesso che lo precisa e che la commissione per gli affari istituzionali vi chiede di approvare. Vi si dice che, per l'entrata in vigore del trattato tra i paesi che l'avranno ratificato, non è necessaria l'unanimità degli Stati membri attuali. Spetterà agli Stati che avranno ratificato il trattato fissare la data e la procedura dell'entrata in vigore di questo testo e negoziare nuovi rapporti con gli Stati che non avranno aderito. Richiamo la vostra attenzione sul fatto che questo quorum implica che gli Stati aderenti siano per lo meno sei, e sette in un'Europa a dodici, e quindi gli Stati più piccoli avranno la loro parola da dire in modo determinante.
Se lasciassimo sussistere un dubbio sulla possibilità di cominciare, anche se non si è al completo, metteremmo il successo dell'operazione non nelle mani dei più decisi, ma in quelle dei più esitanti, anzi dei possibili avversari, destinando così tutta l'impresa a un fallimento quasi certo.
Tra i paesi che esitano, penso - e non sono solo a pensarlo -, con un'attenzione, una tensione e un'angoscia particolari, alla Francia, a causa dell'importanza probabilmente decisiva che il suo comportamento avrà per tutti gli altri paesi della Comunità. Le esitazioni di molti nostri colleghi francesi in quest'Assemblea sono un segno evidente di esitazioni profonde tra i dirigenti del paese.
Ancora una volta, è quasi provvidenziale che la Francia eserciti la presidenza del Consilio in questo primo semestre del 1984, che comincia con la votazione di oggi sul progetto di trattato dell'Unione, si concluderà con le elezioni europee, e nel corso del quale nessuno può certo pretendere che vengano riparati tutti i danni accumulati ad Atene, e ben prima di Atene, ma si ha il diritto di aspettarsi che venga individuata ed indicata la strada da seguire per ripararli.
Il governo francese è dunque impegnato, in questi sei mesi, a meditare, con intensità ed immaginazione più grandi che negli anni scorsi, sulla crisi europea e sui mezzi per venire fuori. E' opportuno, mi sembra, consigliargli di non aspettarsi granché dagli incontri bilaterali che persegue con tanta alacrità.
Certo, è possibile, anzi probabile, che, nel corso di questi incontri, vengano trovati un certo numero di compromessi a breve scadenza, ma si può essere sicuri che si tratterebbe di cattivi compromessi, perché rinvierebbero la crisi istituzionale di uno o due anni, il che la farà scoppiare in modo ancora più pericoloso.
Utili per gli accordi specifici limitati, le trattative intergovernative possono sfociare solo in cattivi compromessi, non appena si tratti di costruire una politica di ampio respiro e duratura.
A tutti i Francesi, ma soprattutto al Presidente della Repubblica che ha recentemente auspicato un ritorno allo spirito del Congresso dell'Aia e ha parlato della necessità di giungere a un'unità politica, il nostro Parlamento deve dire, con il voto di questa sera, che dalla presidenza francese del Consiglio ci aspettiamo che non si limiti a venirci a parlare ritualmente, alla fine del suo semestre, delle quisquilie che il consiglio avrà realizzato, ma che essa scopre che il nostro progetto è la risposta, la sola risposta seria, alla sfida esistenziale di fronte alla quale l'Europa, e la Francia con essa, si trovano, e ci aspettiamo che il governo francese - dico bene: il governo francese, non il Consiglio europeo - faccia proprio il progetto ed annunci che è pronto ad avviare la procedura di ratifica, non appena il minimo di paesi previsto nel trattato per la sua entrata in vigore avranno assunto lo stesso impegno. In tal modo, il semestre di presidenza francese passerebbe alla storia.
Per finire, chiedo a quest'Assemblea, a nome della commissione per gli affari istituzionali, di votare in massa la risoluzione che la commissione ha presentato e gli emendamenti che raccomanda