Nel 1953 Eduardo De Filippo scrisse, condusse e interpretò un film che ha fatto storia. Il titolo, Napoletani a Milano, già bastava a rendere la pellicola un capolavoro. Il film fu presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e si rivelò un successo sia tra il pubblico che tra la critica. È stato anche selezionato tra i 100 film italiani da salvare, una raccolta delle 100 pellicole che hanno cambiato la memoria collettiva del Paese dal 1942 al 1978.
Nel film, la voce narrante di Thea Prandi, che diventerà nel 1956 la moglie di Eduardo e che sarà la madre di Luca, racconta una storia di orgoglio, emigrazione, povertà, amore e stereotipi. Una storia che potrebbe essere di oggi.
La pellicola si apre con le immagini di Piazza Mercato ancora distrutta dalla guerra. Tra le macerie si muovono le anime più fragili e povere della città. Persone ai margini della società. Uomini e donne lontani dalle istituzioni repubblicane e neanche sfiorate dal progresso e dallo sviluppo del boom economico.
Oggi, i luoghi del film sono diversi rispetto ad allora anche se camminando per Piazza Mercato e per i vicoli circostanti, si incontra spesso la stessa decadenza e la stessa precarietà dei palazzi. Nel film don Salvatore è il “sindaco” di un popolo abbandonato che vive ai margini in una borgata fatta di abitazioni occupate, abusive e pericolanti. È lui a badare a tutto. È lui che escogita le strategie per contrapporsi ai potenti, è lui a conoscere il codice e a tira i fili di questo popolo dimenticato.
I lavori che interessano tutto il quartiere, rendono però la zona molto simile a quella del film. Nella pellicola infatti la ILAR, un’industria milanese, aveva deciso di costruire proprio qui un suo stabilimento costringendo tutto il popolo di don Salvatore ad uno sgombero. Il rumore dei martelli pneomatici e delle pale, fa tornare alla memoria le scene iniziali del film di Eduardo. Quella marcia di uomini con in testa don Salvatore che si para davanti all’ingegnere milanese, interpretato da Frank Latimore, per bloccare i lavori ed evitare lo sgombero.Un palazzo proprio nel nel mezzo di quella che era un'inca piazza è semi caduto, monco di un pezzo e con i mattoni di tufo grezzo a vista ma resta in piedi con ostinata indolenza. Questo palazzo, nel colore, nello stato e nella precarietà strutturale ricorda tanto il “cuorno”, il palazzo che nel film crolla e dà inizio alle avventure dei Napoletani a Milano.
La grandezza delle opere di Eduardo sta nella la loro capacità di rimanere sempre attuali, di avere mille significati e mille messaggi. Oggi le parole di don Salvatore sembrano perfette per descrivere i pregiudizi che ancora si hanno dei napoletani al nord e che i napoletani stessi hanno dei migranti. La capacità, la voglia e l'impegno che dimostrano le vittime di razzismo di distruggere questi stereotipi con il lavoro e con la realtà umana, affiora in maniera chiara e potente nel film. I napoletani della borgata più povera della città che erano andati con astuzia in cerca di un facile guadagno, si ritrovano invece a difendere l’onore di un popolo e a dimostrare che non sono per natura propensi solo a sdriarsi al sole di via caracciolo me, se messi nelle condizioni giuste, lavorano come e meglio degli altri. Nel film l'emigrazione è un valore un senso di appartenza ad un popolo che valica i confini geografici. Infatti è solo grazie alla diaspora partenopea nel mondo, quel tessuto umano che nei secoli ha coperto ogni angolo della terra, che la ILAR riesce a rimanere aperta e a salvarsi.
I luoghi del film sono molto cambiati rispetto al 1953. Ci sono orrendi palazzoni dormitorio che coprono anche la vista delle stupende tre chiese che delimitano la piazza. Sant’Eligio Maggiore con il suo stile gotico, il suo orologio, il suo arco e le sue leggende. La Chiesa di Santa Croce e Purgatorio che raccoglie le due antiche cappelle della piazza. La Basilica di Santa Maria del Carmine con il maestoso campanile che svetta nonostante le impalcature, con all’interno la statua di Masaniello posizionata proprio dove fu ucciso.
A pochi metri, difronte, proprio vicino ai luoghi dove don Salvatore faceva il veterinario, il sindaco e il giurista per tutti i diseredanti e gli ultimi della città, c’è il Parco della Marinella. Un luogo che raccoglie gli ultimi, i dimenticati, gli emarginati, i poveri, i nuovi emigranti. Quel campo sgomberato qualche settimana fa, resta ancora abitato. Tra rifiuti, esclusione sociale e sofferenza si muove un popolo dimenticato. Le immagini sono le stesse del film, qui don Salvatore non ha l’accento napoletano e non ha la pelle chiara ma combatte e lotta contro gli stessi stereotipi e le stesse storture.
Sono luoghi come quello della Marinella che rendono ancora attuali le vicissitudini, il coraggio, la forza e le parole di don Salvatore e di tutti i suoi Napoletani a Milano.