Il maestro De Simone non ha concluso il suo viaggio

Nel suo genere, nessuno come lui, eppure più dimenticato che osannato, dalla sua città...

il maestro de simone non ha concluso il suo viaggio
Napoli.  

Il 7 aprile, all'indomani della morte del maestro Roberto De Simone, Toni Viola, unendosi a un profluvio di voci, scritti, sospiri, nostalgie, elogi funebri e tardivi ripensamenti, ha ricordato su Avvenire una intervista rilasciata alla stessa testata dieci anni prima - in occasione della presentazione dello "Stabat Mater", che aveva deciso di dedicare ad Aylan, il bambino siriano di Kobane di tre anni trovato morto sulla spiaggia di Ali Hoca Burnu a Bodrum in Turchia - in cui il musicologo partenopeo dichiarava: "Non sono un compositore razionale, non mi piace analizzarmi, cercare i significati che stanno alla base dei miei lavori. Lascio che lo facciano gli altri".

L'uomo dietro le sue opere, quella artistica e quella umana, indistinguibili l'una dall'altra, come si addice a chi ha immensamente amato quello che lo ha rappresentato nel mondo. Con un di più: Napoli, la sua Napoli, forse perduta e forse no, humus, brezza, panorama, catastrofe.

Nel suo genere, nessuno come lui, eppure più dimenticato che osannato, dalla sua città e nella sua città, innanzitutto. Troppo anticonformista, troppo libero dai revisionismi piccolo-borghesi, troppo popolare per essere un intellettuale così colto e raffinato. Un cercatore di monili di bronzo (o ancora meglio di legno) in un "mercato" che una volta riluceva di ori e di argenti e ora si compiace (appena) della vetronite e del rame. Un amico, un nonno, un ascoltatore (anche dei cuori altrui), un pianista del privato, un compositore di pause e sillabazioni.

Un teatrante della canzone o un cantante del teatro, non rimurginante e mitteleuropeo come Giorgio Gaber, ma corale, etnico fino alla gutturalità misteriosa e magica. L'ultimo sciamano vicolare, il più sussurrante e sincopato ballerino dei richiami ancestrali, il mimo della tribalità partenopea. E nonostante tanta primogenitura, tanta epicità, sommesso, colloquiale, avventore lento e paziente di mercatini (questi veri) e chiese, spirito libero (ma non eroico) in un mondo di riti e catene. Sfiorato, intravisto, ascoltato nei miei anni post-adolescenziali e riscoperto ogni volta che ho ridesiderato (o riodiato) senza proclami o infingimenti la mia città.

Qualcuno abbia a cuore il suo ricordo, meno la sua commemorante apologia, che vedrete da oggi in poi abbonderà a ogni angolo di strada, come una stella di latta o una fascia tricolare, che però per lui non avevano (parimenti) alcun significato o valore.

"Sono un pellegrino" - aveva detto a Paola Severini Melograni, nel corso di un'altra intervista rilasciata una decina di anni fa, in occasione di uno dei tanti premi ricevuti nella sua carriera. E per spiegare il senso di quel termine aggiunse: "Quando mi sono trovato in procinto del diploma, come pianista, autore, compositore, scrittore, sono stato vinto da una domanda che per me è diventata un qualcosa di tragicamente assillante. A che serve oggi essere musicista? E per chi? Per chi svolgo la mia attività o svolgerò la mia attività di esecutore pianistico? Il pubblico ai concerti non mi esaltava, capii che era una scelta, per quegli anni, per il tempo in cui vivevo, completamente sbagliata. Ad esempio, quelli che venivano considerati i grandi autori, compositori dell’epoca che praticavano un tardo perbenismo, producevano le loro composizioni, destinate a un pubblico intellettuale della cui rappresentatività non facevo parte. E allora dissi no, io non farò il compositore ufficiale, voglio fare il compositore di canzoni, è meglio. Come compositore è meglio abbandonare questa storia del 'per bene', e si avvia un’altra strada". "Quale?"- gli domandò la giornalista. Lui rispose: "Forse quella di ricercare nella storia trascorsa, nel teatro corale. La mia ricerca è stata sul bisogno di individuare la funzione che la musica può avere in una collettività. Che non era quella del pubblico aristocratico o tradizionale dei salotti. E così ho cominciato la mia carriera di pellegrino".

Ed è in questa "ricerca" della "sua" verità storica, antropologica, culturale e personale che Roberto De Simone è giunto alla "Gatta Cenerentola", non un punto di partenza né di arrivo, ma una stazione di sosta nei mille intricati sotterranei della sua immensa anima, profondamente napoletana e profondamente universale, tanto da non doversi mai distaccare (raro come una gemma), neanche spazialmente, dalla sua città.

Di quel meraviglioso pezzo della sua strada che io (ri)conobbi nel lontano 1976, lui così parlava: "Quando cominciai a pensare alla gatta Cenerentola pensai spontaneamente ad un melodramma: un melodramma nuovo e antico nello stesso tempo come nuove e antiche sono le favole nel momento in cui si raccontano. Un melodramma come favola dove si canta per parlare e si parla per cantare o come favola di un melodramma dove tutti capiscono anche ciò che non si capisce solo a parole.

E allora quali parole da rivestire di suoni o suoni da rivestire di parole magari senza parole? Quelle di un modo di parlare diverso da quello usato per vendere carne in scatola e perciò quelle di un mondo diverso dove tutte le lingue sono una e le parole e le frasi sono le esperienze di una storia di paure, di amore e di odio, di violenze fatte e subite allo stesso modo da tutti. Quelle di un altro modo di parlare, non con la grammatica e il vocabolario, ma con gli oggetti del lavoro di tutti i giorni, con i gesti ripetuti dalle stesse persone per mille anni così come nascere, fare l'amore, morire, nel senso di una gioia, di una paura, di una maledizione, di una fatica o di un gioco come il sole e la luna fanno, hanno fatto e faranno."

E questo è tutto ciò che in fondo ci resta di lui, "il viaggio verso un luogo sacro per devozione, ricerca spirituale o penitenza", ben consapevoli che senza i suoi doni non ci sarà "conversione o cambiamento" anche nelle nostre comuni esistenze