Tutto è cominciato per caso. Era un bel po' prima dell'alba del 28 agosto scorso. Mi ero appena svegliato (ahimè sempre troppo presto!) nella casa di un amico sulla strada che porta al borgo roccioso di Maranola, la frazione che sovrasta Formia - città di Cicerone, come si autodefinisce quel comune con un cartello al suo ingresso, ma in realtà scena solo degli ozi e della morte per mano assassina del grande oratore e filosofo romano - alle pendici del monte Altino e con affaccio incantato sul golfo di Gaeta (per secoli il "sinus formianus").
Un gallo ha cominciato a cantare, ripetutamente, insistentemente, a intervalli non superiori a 30 secondi, per ore. Addio sonno! Ma del resto le speranze di riacchiapparlo erano già poche.
Le veglie notturne favoriscono percorsi mutevoli e accidentati del pensiero, così itinerando mi sono ritrovato nel bel mezzo di una vecchia reminiscenza. Ricorreva, infatti, proprio in quelle ore, la morte di uno dei più grandi scrittori italiani del '900 (e uno dei miei preferiti), Cesare Pavese. Il 27 agosto del 1950 il romanziere, poeta, saggista, critico, sceneggiatore e traduttore piemontese si dava volontariamente la morte a soli 42 anni con sedici bustine di barbiturico in una stanza dell'hotel Roma di Torino, che da allora non sarebbe mai più stata messa sul mercato. Il legame tra il gallo canterino formiano e Cesare Pavese è fin troppo facile. Il romanzo che consacrò l'autore cuneese a livello mondiale e che era stato pubblicato da Einaudi alla fine del 1948 si intitola (appunto) "Prima che il gallo canti".
Mi sono sempre chiesto perché Pavese avesse voluto dare a un testo composto da due distinti romanzi brevi, scritti a distanza di 10 anni l'uno dall'altro - "Il carcere" e "La casa in collina" - e dalle trame apparentemente lontanissime tra loro, proprio quel titolo. E, soprattutto, cosa di entrambi i racconti si coagulava in esso. Ascoltando quel gallo nella notte la spiegazione che mi sono dato è che le due storie - bellissime, intellettuali, cadenzate, solenni e dolorose - avevano in comune proprio il "Rinnegamento di Pietro" raccontato dai Vangeli (sinottici e di Giovanni), con quel "Prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte" (sc. Matteo), che fa da simbolico spartiacque tra valore e fragilità, coraggio e viltà, adesione e ignavia, onore e disonore.
Senza voler entrare nel merito di tutte le ragioni, formali e sostanziali, che vedono convergere i due racconti su un tema così complesso, anche per chi non crede, segnalo solo i suoi due protagonisti - Stefano e Corrado - tormentati, esclusi, asettici, quasi patetici, colpevoli di quello che avevano fatto o che avevano omesso di dire o fare, nella prima storia verso il mondo, nella seconda verso sé stessi. Ora non resta che svelare l'arcano della relazione tra il gallo che ha allietato il mio risveglio notturno e il volume di Pavese. Uno studio giapponese ha recentemente dimostrato che "l'uccello domestico più conmercializzato al mondo" non canta perché anticipa il giorno, annunciando così col suo gorgheggio l'alba, ma lo fa per un suo bisogno interno che solo accidentalmente anticipa di poco (ma non sempre) il sorgere del sole.
Lo conferma il fatto che il mio ha cominciato a farsi sentire quando il buio era ancora pesto. Il gallo - lo hanno dimostrato in modo incontrovertibile i ricercatori del Sol Levante - ha un orologio biologico circadiano, che coincide col massimo rilascio nel suo sangue dell'ormone della mascolinità, il testosterone, e che, guarda caso, si sovrappone con le ore che precedono l'alba. Altri fattori possono condizionare l'inizio, l'intensità e la frequenza di quel (talora petulante) solfeggio, e sono: la presenza di competitori vicini e lontani, il bisogno di delimitare il territorio, il compiacimento per il buon numero di accoppiamenti riusciti (una specie di grido d'amore), poi luci (anche d'auto), affollamenti nel pollaio e rumori (i famosi "galli da guardia" dell'epoca antica). Ma c'è di più. Cantano di più i galli che hanno paura di perdere la loro supremazia, quelli che potremmo definire "insicuri", incerti di dominare o di mantenere la loro leadership, quelli cioè "stressati". Che temo fosse proprio il mio caso. Ecco il nesso biologico unificante - mi si perdoni il dissacrante o blasfemico azzardo - tra Pavese, San Pietro e il mio pennuto disturbatore: tutti e tre non hanno creduto di poter reggere il confronto con un mondo dispotico e invadente, così, chi ammazzandosi, chi rinnegando e chi strepitando, hanno pensato di alleviare il senso di colpa per quelle che il loro cuore sentiva come assordanti e insopprimibili insicurezze.