Alla luce delle continue figuracce che la nazionale di calcio italiana fa ormai da anni (fatta eccezione per il fortunato europeo di quattro anni fa), mi sembra giunto il momento di tirare fuori qualche nostalgica considerazione personale sul come - il perché è cosa ben più ardita e soggetta a scabrosi opinionismi - sia finito così in basso questo sport nel nostro paese.
La premessa è che io amo oltremodo il calcio - meno, molto meno, i suoi confratelli, pur apprezzandone qualcuno come il basket, la pallavolo, il tennis e il nuoto - ma ovviamente il mio piacere si limita al guardarlo, non a praticarlo. È da sempre, infatti, nota la mia incapacità a giocarlo con un qualche profitto. Lo seguo da quando ho memoria, pur in una famiglia dove non ricordo ci fosse qualcuno dotato di una benché minima passione per questo come per nessun altro sport. Mio padre sull'argomento era un vero gentleman, simpatizzava - credo più per compiacermi - per il Napoli con discrezione e bonarietà, ma non mancava di guardare in TV le altre squadre italiane quando competevano nei grandi tornei internazionali, facendo un tifo altrettanto garbato e scanzonato.
Non ci crederete, ma anch'io, e solo nelle coppe europee da cui la mia squadra del cuore era regolarmente assente, sostenevo le altre formazioni del Bel Paese, perfino quella a strisce bianche e nere - che oggi ometto rigorosamente di vedere e anche commentare per non incorrere nel reato di lesa maestà - e mi rammaricavo (e non poco) per le sconfitte come per le ingiustizie da loro subite.
Altri tempi, un'era preistorica fa, un altro mondo, in cui nello sport come nella vita di questo paese si vinceva e si perdeva insieme. Rammento ancora la semifinale dell'Italia in coppa del mondo contro la Germania - la madre di tutte le partite - e un manipolo di ragazzini che, sotto gli occhi benevoli degli adulti, andavano su e giù rumorosamente per un paesino della Valle Telesina per celebrare quella vittoria.
Allora non si registravano eccezioni né distinguo, l'Italia era più unita di ora, si marciava da nord a sud tutti insieme felici e basta. Gli ultrà si sfottevano gli uni con gli altri, anche pesantemente, ma guerreggiavano soprattutto con la polizia (era la norma, anche e soprattutto al di fuori del calcio), meno, molto meno, con le altre tifoserie. O almeno così ricordo, forse erroneamente. Ma non cambia granchè.
Pensate, i napoletani erano perfino gemellati con i romanisti e i salernitani non organizzavano feste a piè sospinto ogni volta che il Napoli perdeva. Anzi qualcuno di loro lo tifava perfino. Le federazioni e gli arbitri non erano sponsorizzati da una (sola) squadra del nostro campionato (provate a indovinare chi), coloro che governavano il calcio, come quelli che lo commentavano, erano mille volte più professionali di uno a caso di quelli che oggi e da anni bivaccano imperterriti tra istituzioni e televisioni, gestendo, condizionando o pontificando a seconda della parte del tavolo dove sono comodamente seduti.
Gli arbitri, le cui mogli erano regolarmente additate per la loro dubbia moralità, avevano un onore ancora non compromesso da rimborsi, prebende, carriere o attività lavorative dopolavoristiche, astrusi regolamenti e VAR (che quelli di ora hanno comunque imparato già ad aggirare).
L'unica cosa che non è cambiata è la passione per la propria squadra del cuore, il tifo, che, organizzato o meno che sia, resta lo zoccolo duro di un business che va però sempre più verso il suo inesorabile e inconcludente tramonto. Quel tifo che mi spinge, ancora oggi come tanti anni fa, a soffrire in silenzio e per giorni dopo una sconfitta del Napoli - rendendomi intollerabile la sola vista di una qualsivoglia altra partita in televisione - o a farmi sentire più vivo e felice dopo una sua vittoria.
Basterebbe questo per interrogarsi sul futuro di uno sport che se saprà non disperdere i suoi valori fondanti - rispetto, lealtà e impegno, ma anche comunione, gioia e appartenenza - sopravviverà, in caso contrario diverrà un altro circo equestre, buono per spettacoli (più finti che veri) di saltimbanchi e belve ammansite, scultorei maciste di cartapesta, con cui far scene da pupi e su cui far puntate e scommesse da qualche luogo territorialmente e moralmente indefinito.