Il "matrimonio all'italiana" tra imprenditore e lavoratore

un lavoratore su quattro non solo non è soddisfatto ma addirittura ostacola il lavoro altrui

il matrimonio all italiana tra imprenditore e lavoratore

Perché, se quello tra imprenditore e lavoratore è (ancora) in qualche modo un "matrimonio", che non sia "all'italiana", cioè una finzione scenica, tanto per scaldare una sedia...

Napoli.  

L'ultimo rapporto Gallup di appena qualche giorno fa sullo stato di salute del lavoro in Italia ha rivelato una realtà per certi versi sconcertante: un lavoratore su quattro non solo non è soddisfatto di quello che fa (e per cui è "regolarmente" retribuito), ma addirittura segretamente ostacola il lavoro altrui, di fatto così sabotando l'azienda da cui è assunto. Questa fetta non minore della popolazione italiana impiegata, pertanto, non fa nulla o quasi nulla, pur facendo finta però di svolgere una qualche mansione, e in più "mina quello che i suoi colleghi impegnati realizzano” e “si oppone attivamente agli obiettivi prefissati dal suo datore di lavoro".

Questi individui - termine più adatto non esiste, vista la loro naturale propensione a privilegiare il proprio interesse rispetto a quello dei loro colleghi - che sono catalogati dalla informazione specializzata come "attivamente disimpegnati", vanno per la loro strada con perfidia e doppiogiochismo e raramente vengono smascherati, finendo così col danneggiare l'impresa che mai così tanto immeritatamente li foraggia.

Un vero scandalo in un'epoca in cui l'incontro fatale tra chi cerca e chi dà lavoro non è mai stato così problematico e utopico. Se il dato presentato dal Global Workplace Report di Gallup è vero - e niente ci fa pensare che non lo sia - abbiamo in questo paese un problema molto serio che potrebbe comprometterne addirittura la sopravvivenza economica e lo stesso futuro sociale. Se si aggiunge - come riferiscono le note d'agenzia a commento di quel rapporto - che "il 46% sperimenta ogni giorno stress legato al lavoro e il 25% dice di essersi sentito “triste” per buona parte della giornata precedente, è facile capire perché il 41% vorrebbe cambiare posto, la quota più alta in Europa dietro l’Albania". Aggiungo - purtroppo per la ditta che (ignara?) gli paga lo stipendio - senza che nella quasi totalità dei casi poi il nostro sabotatore lo faccia. E non finisce qua.

"Solo il 32% dei dipendenti concorda sul fatto che questo sia un buon momento per trovare un lavoro nel luogo in cui vive: molto sotto la media europea del 57%, anche se in aumento di 12 punti percentuali rispetto al 2022" - concludono le informative di stampa. Insomma, ne esce fuori un'Italia - qualora non lo sapessimo - che più che cercare lavoro pare volersi fare una ragione di quello che ha, pur amandolo poco o affatto.

Il paese è sfiduciato, poi, di trovarne uno a portata di mano, tanto anche a scovarlo avrebbe alte probabilità che non gli piaccia. E questo già basterebbe e avanzerebbe. Ma sapere poi che molti dei nostri presunti lavoratori simulano con maestria uno scimmiottamento dei loro compagni  produttivi portando infruttosità se non addirittura ostacolo alla loro azienda non fa altro che renderci ancora più fragili sul piano della competitività imprenditoriale europea e mondiale e più tristi su quello morale per quanto si potrebbe costruire in un paese così straordinario e viene, invece, puntualmente disatteso.

Occupazione prêt-à-porter, quindi, tanto per indossare qualcosa, e senza neanche crederci, secondo le più antiche e iconografiche rappresentazioni del "pubblico impiego" (e temo ormai non solo). Così si spiegano anche i numeri dei pochi laureati del Bel Paese- pur essendo gli italiani tra i più solerti a scegliere la scuola terziaria (in assenza peraltro di alternative formative credibili) - tanto da diventare fanalino di coda in Europa tra coloro che cominciano un'impresa - in questo caso l'università - e poi la portano perfino a termine. Se qualcuno può fare qualcosa corregga la rotta ora, prima che ci inabissiamo come un comune Titanic nei perigliosi mari della noia e del tradimento.

Perché, se quello tra imprenditore e lavoratore è (ancora) in qualche modo un "matrimonio", che non sia - in pieno terzo millennio e con una intelligenza artificiale che incalza - "all'italiana", cioè una finzione scenica, tanto per scaldare una sedia (si diceva una volta) o simulare un impegno. Una dedizione affettiva, una fedeltà autentica - che sia chiaro, da entrambe le parti in gioco - sarebbero perfette per il buon futuro di tutti.