C'era una volta il "mio" Franz Kafka (e ancora c'è)

A cento anni dalla morte è diventato uno dei giganti della letteratura di tutti i tempi

c era una volta il mio franz kafka e ancora c e
Napoli.  

Il 3 giugno sono trascorsi 100 anni esatti dalla morte di Franz Kafka nella clinica - sarebbe più corretto chiamarlo sanatorio - Hoffmann di Kierling, non lontano da Vienna. Lo scrittore boemo sarebbe morto - il condizionale è d'obbligo per un'epoca non documentata da foto o post - intorno a mezzogiorno, in un luogo peraltro indefinito di quella struttura, che è oggi diventata furbesca meta di cultori, appassionati e curiosi provenienti da tutto il mondo. Io non ci sono mai andato, eppure ne avrei avuto ben donde, per i motivi che a breve spiegherò.

Accanto a lui, ridotto ormai a una larva - l'amico di sempre Max Brod lo descriveva di un peso non superiore a 50 kg, vestiti compresi, per un'altezza che oltrepassava il metro e ottanta - c'era la sua ultima fidanzata, la polacca Dora Diamant, la meno significante sul piano affettivo e letterario (o solo quella più condizionata dalla brevità della relazione, segnata dalla morte prematura del romanziere meno di un anno dopo il loro incontro, avvenuto nella colonia di Graal-Müritz dove la giovane era volontaria), ma forse anche la più devota.

Resta il fatto che da quel fatidico giorno è trascorso un secolo e Franz Kafka è intanto diventato, nonostante la frammentarietà e l'incompletezza della sua opera, uno dei giganti della letteratura di tutti i tempi e, a ogni ricorrenza che lo riguarda, fiumi di voci ben più autorevoli e competenti della mia continuano a celebrarlo in ogni angolo della Terra. Anche e ancor di più questa volta: una opportunità temporale così tonda e incisiva non capita tutti i giorni e allora come farsela sfuggire. Profluvi di parole, in ogni lingua e in ogni dove, di cui ho letto quanto più ho potuto. Ma non ho trovato nulla che parlasse di me, del "mio" Franz Kafka, quello dai risvolti così personali da essere embricati nella mia stessa vita, nelle sue più radicate emozioni, nei suoi più reconditi palpiti.

Tutto è cominciato per caso. Ero agli sgoccioli dei miei anni adolescenziali e, a seguito di una tesi, assegnatami dal mio professore di latino e greco, dal titolo "La morte in Lucrezio", mi imbattei in uno scritto (forse un racconto) di Kafka - di cui non ricordo il nome - dove il concetto di fine vita era affrontato nella sua arida ed enigmatica crudezza, com'era proprio dell'autore praghese, ma anche con una scalpitante lucidità a cui non ero neanche lontanamente abituato. Ebbene la folgorazione fu immediata, come mi sarebbe successo solo altre due volte nella vita.

Franz Kafka parlava a me, alle mie solitudini, ai miei turbamenti, alle mie rivendicazioni. E con uno stile che io comprendevo, solenne e sgusciante, arrendevole e fiero. Per la prima volta avevo un codice letterario che era stato composto solo a mio vantaggio. Era, per dirla alla sua maniera, come se lui avesse acceso "una lampada a olio contro la finestra" di una gelida casa praghese e io non solo l'avessi vista, ma di quella luce ne fossi diventato parte, fino a farla essere "la luce più viva del mondo". Ero io quello braccato dalle sue parole, ero proprio io quello accarezzato e sanato dai suoi vaneggiamenti. Era la prima volta che mi accadeva - ero ancora un ragazzo - e in quell'immaginifico e tracimante modo poi.

Allora non lo sapevo, ma sarebbe stata già quasi l'ultima. Ero a Praga, Vienna, Berlino, Nerano. Ero con Ottilie (Ottla per lui), con cui mi scambiavo tenere lettere, come con Gabriele e Valerie - le altre sue due sorelle - che in una trasposizione non più solo letteraria diventavano anche mie sorelle (la terribile sorte di tutte e tre nei campi di sterminio nazisti ancora mi turba). Ero con suo padre (e contro di lui), a cui con ossequio irriverente e rivoluzionario scrivevo parole che avrei voluto scrivere al mio. Ero nelle sue peregrinazioni spaziali e linguistiche, nelle sue passioni perverse ed estatiche, nelle sua ricerche infantili e sterili. Kafka mi ha insegnato a muovermi nel mistero della vita e a trasformare l'esperienza quotidiana in un pezzo anche indecifrabile della strada, ma non per questo meno straordinario o meritevole di essere vissuto. Ma soprattutto mi ha educato al doppio: il falso nascosto nel vero, il brutto composto dal bello, l'incrollabile fede annidata nella dissacrazione e nella bestemmia.

In "Un medico di campagna" mi ha insegnato poi a riconoscere l'onore (e il peso) di una professione irripetibile, che peraltro già vedevo tutti i giorni negli occhi di mio padre. Mi ha fatto capire che quel dolore che io provavo senza sapere perchè, e che credevo erroneamente unico, era invece "nostro", tanto superfluo quanto necessario, un po' come l'amore che - per sua stessa splendida ammissione - è "il coltello che ti do per frugare dentro me stesso". E come il Nemecek de "I ragazzi della via Pal" (uno dei miei romanzi preferiti di sempre), a cui ero certo (chissà perchè) che Kafka assomigliasse anche fisicamente, il quale alla fine di quel meraviglioso racconto ne risultava il personaggio più commovente, il più immortale, pur essendo, in apparenza, il grande sconfitto, il vinto per antonomasia. Proprio come il "mio" Franz, nella infinita storia degli uomini e delle cose.