Il riscoperto valore etimologico della parola intelligenza

Il dibattito sull'intelligenza artificiale pone una serie di interrogativi

il riscoperto valore etimologico della parola intelligenza

È un dovere di tutti tenere ben distinte le due capacità, quella naturale da quella artificiale, a partire dal significato che vogliamo dare a ciascuna di esse...

Napoli.  

Nel dibattito sull'intelligenza artificiale (da qui in poi abbrevieremo come sempre con il suo acronimo IA), in Italia come nel resto del mondo c'è qualcosa che continua a stonare, a partire dall'uso inappropriato della parola intelligenza. Ho già trattato in un precedente articolo questo tema, ma non confrontandolo mai con quello, ormai pervasivo, della sua "consorella" o "imitazione" (fate voi) artificiale.

Ricordo che il significato etimologico di questo vocabolo è ben lontano dall'uso - a mio giudizio - inappropriato che se ne fa riferendosi all'IA, di fatto null'altro che "la capacità (o il tentativo) di un sistema artificiale (tipicamente un sistema informatico) di simulare l'intelligenza umana attraverso l'ottimizzazione di funzioni matematiche". Certo da quando un qualcosa che assomigliasse a questa definizione è stato reso pubblico - si parla di circa 70 anni fa durante un congresso negli Stati Uniti che attirò i più grandi esperti mondiali di allora della materia - molte cose sono cambiate e i "sistemi intelligenti" sono diventati sempre più performanti e operativi fino a essere essi stessi "generativi" di linguaggi e, addirittura, "azioni" via via più complesse. Per quanto riguarda gli aspetti verbali ne è testimonianza incalzante e sbalorditiva proprio il "trasformatore generativo pre-addestrato", comunemente  conosciuto come Chat Gpt di OpenAI, arrivato quasi alla sua 5° versione, la quale peraltro si preannuncia ancora più ammaliatrice e "umanoide" delle precedenti.

Certo l'IA non è più solo "deep learning" (apprendimento automatico e profondo), ma resta il fatto che - per quanto  istantaneo, sfavillante, misterioso (ai più, compreso al sottoscritto) e in continua e crescente evoluzione e diffusione nelle nostre vite - essa non è "intelligenza", o almeno non ha niente a che fare con quello che essa etimologicamente significa per l'uomo. Nel caso della IA, infatti, si tratta niente di più che di una "raccolta di dati, alla quale segue una fase di progettazione e programmazione di un modello (tipicamente costituito da blocchi composti da funzioni matematiche aventi parametri apprendibili) basato su una architettura compatibile ai tipi di predizione che si intende ottenere (riconoscimento facciale, generazione di testo, segmentazione di immagini, rilevamento di oggetti ecc.)".

L'intelligenza naturale invece - come vuole la sua radice linguistica- è letteralmente (dal latino "legere" + "intus") la capacità di "cogliere, raccogliere, leggere" ma "dentro", cioè l'abilità di utilizzare la propria dotazione cognitiva per "vedere in profondità" quello che la sola parte razionale della nostra mente non sarebbe neanche in grado di scorgere. In definitiva, quindi, tra i due tipi di "intelligenza", c'è la stessa differenza che passa tra l'apprendere e il comprendere: un mero processo di acquisizione di informazioni e nozioni il primo - nel caso dell'IA in proporzioni che definire mastodontiche è dir poco e comunque irragiungibili per mente umana - e di articolata e irripetibile introiezione di notizie, vissuti e sentimenti il secondo. In ogni caso - quest'ultimo - l'unico in grado di attuare strategie e scelte consone al vivere civile e all'interazione (fisica ed emotiva) tra persone.

Non è solo un sofisma semantico il mio né il tentativo pregiudizievole di attribuire all'uomo una centralità nella relazione con la macchina che sta forse - a sua ottusa e clamorosa insaputa - perdendo (e di questo parleremo nelle prossime puntate), ma è il desiderio di porre, sin dalla sua premessa formale, un limite invalicabile a un rapporto che non può essere arbitrariamente fatto nebbioso, al solo scopo di rendere il bipede millenario quantomeno paritario alla sua creazione.

Come non basta riprodurre reti neurali per chiamare quel prodotto cervello, così non possiamo trasformare uno strumento meraviglioso, ma niente più che "utile" (per quanto il passo perché diventi "necessario" è più che breve), in un nirvana intellettivo, dove l'uomo finisce con l'essere il servo e l'IA il padrone. Nel 1920 Franz Kafka, come ogni grande uomo che vede le cose molti anni prima che accadano, citando un suo passo di "Quaderni in ottavo", scriveva alla fidanzata Milena Jesenská: "L'animale strappa la frusta di mano al padrone e frusta se stesso per diventare padrone e non sa che ciò è soltanto una fantasia, prodotta da un nuovo nodo nella frusta del padrone". È un dovere di tutti tenere ben distinte le due capacità, quella naturale da quella artificiale, a partire dal significato che vogliamo dare a ciascuna di esse, affinché il gioco delle parti non ci veda, prima o poi, irrimediabilmente soccomber