Ho rivisto in televisione un film di qualche tempo fa - i giorni di riposo sono ideali per me per leggere, scrivere, pensare e guardare qualche buon lungometraggio, vecchio o nuovo che sia - che nella versione italiana recava, come spesso, e talvolta senza una precisa finalità, accade, un titolo più ridondante del dovuto, "Erin Brockovich - Forte come la verità". Quello originale inglese era, infatti, privo della seconda e inutile appendice, bastava e avanzava (e scopriremo presto perchè) il nome della protagonista.
Il film uscì al cinema in Italia quattro giorni prima della nascita del mio primogenito e perciò me lo persi, riuscendo a vederlo solo molti anni dopo in televisione. L'impressione ricevuta da questa seconda visione è stata non solo altrettanto piacevole della precedente, ma mi ha permesso di godere di alcuni piccoli o grandi particolari - dipende dai punti di vista - che, a essere sinceri, avevo completamente perduti (o dimenticati) in quella.
Premesso che non sono un grande estimatore del regista del film, lo statunitense Steven Soderbergh, specie nelle sue (frequenti) versioni deliranti, torbide o inconsulte, tuttavia nell'opera in questione, forse perchè tratta da una storia vera e probabilmente sceneggiata in parte sotto dettatura, la sua mano è ferma, la narrazione lineare, i ritmi giusti, l'analisi moralistica estranea a ogni tipo di inquadratura, la commozione affatto dominante sul resoconto, anche quando diventa vertiginosa e sgomenta - l'immagine della bambina malata di tumore, rannicchiata sulla sua mamma, i suoi occhi persi nel vuoto eppure cosi aggrappati alla vita, appartengono di diritto alle scene taumaturgiche e immortali del grande cinema.
Poi gli attori azzecatissimi, su tutti (ovviamente) l'abbacinante, splendida, intrigante, sensuale e bravissima Julia Roberts, seguita a ruota dal misurato, delizioso, gigione quanto basta e spiritoso Albert Finney. Una piccola critica solo alla liaison amoureuse della protagonista con uno zotico e impresentabile Aaron Eckhart, con tanto di basettoni, barba e coda di cavallo. Ma forse questo è solo quanto veramente accade in una America che continuiamo a non capire mai fino in fondo.
Resta la veridicità e la drammaticità della storia, quella di una delle tante che narrano delle contaminazioni ambientali di questa povera Terra - che continuano imperterrite ad arrecare malattie e morte alle nostre comunità ignare o indifese - tanto care al cinema, in particolar modo a quello statunitense, meno, molto meno, alla società civile, anche di quella stessa nazione. Ma soprattutto resta negli occhi la bellezza disinvolta e annichilente di Julia Roberts - dieci anni dopo la sua interpretazione nell'incantevole "Pretty woman" e di quella non meno ammaliante di sette anni prima ne "Il rapporto Pelican" - che a metà del film aveva già sfoggiato, con pieno merito, una ventina di minigonne (sempre più mini e sempre meno gonne), e alla fine della proiezione credo abbia indossato non più di tre abbigliamenti che non la prevedessero. L'ultima in ordine tempo, su gambe mozzafiato, proprio ai titoli di coda, era rossa, come guance alla fine della corsa, labbra mangiate dai baci, cuori soffocanti.